giovedì 21 febbraio 2008

‘Non lo sopporto più, il suo Magistero è un esorcismo continuo’: Satana sfiancato da Ratzinger



di Gianluca Barile
www.papanews.it

CITTA’ DEL VATICANO - ‘Lo odio, non lo sopporto più: ogni sua parola, ogni suo gesto e ogni sua benedizione rappresentano un esorcismo’. Non c’è che dire, Satana non riesce proprio a rassegnarsi: il Papa gli dà filo da torcere, lo tortura, lo smaschera mettendo continuamente in guardia l’umanità contro le sue opere e seduzioni, e lui, il Maligno, l’angelo decaduto, il dannato in eterno, il capo degli spiriti infernali, si sente ormai alle strette, piegato e piagato dal Magistero di Joseph Ratzinger. In quanto collaboratore di un esorcista, sono testimone diretto della sofferenza atroce che patisce il Diavolo al solo udire il nome di Benedetto XVI: urla, strepiti, pianti di dolore. Solo pochi giorni fa, ad esempio, mentre una donna era sottoposta a preghiera di liberazione in una chiesetta in provincia di Salerno, Satana si è lasciato sfuggire l’ennesimo sfogo, quello che avete letto all’inizio di questo articolo: è disperato, non ne può proprio più del Papa e delle sue continue catechesi contro l’Inferno e gli spiriti che lo abitano. Ma non solo: il Maligno considera ‘ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni sua benedizione un esorcismo’. Da un punto di vista strettamente teologico si potrebbe affermare che Satana detesta il Santo Padre per la sua autorità di Vicario di Cristo in Terra e di Pastore universale della Chiesa. Sarebbe logico ma, nel caso di Benedetto XVI, riduttivo. Perché prima come Professore, poi come Arcivescovo e infine come Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger non si è mai stancato di sottolineare la reale esistenza del Maligno e dell’Inferno, in modo che gli uomini fossero ben consci che con il peccato rischiavano le fiamme eterne. Innumerevoli sono anche i richiami del Cardinal Ratzinger a non ricorrere all’occultismo: le pratiche magiche, nell’offendere Dio, aprono le porte dell’anima, e del mondo, a colui che in quanto padre della menzogna fa credere di essere la soluzione di tutti i mali essendo, invece, il Male per eccellenza. D’altronde, talvolta basta una semplice lettura dei tarocchi (per non parlare delle più gravi sedute spiritiche, delle messe nere, delle maledizioni, delle fatture, del malocchio, delle consacrazioni al Diavolo) per consentire a Satana di impossessarsi dello spirito e del corpo di una persona. A quel punto, se davvero ci si vuole liberare dello sgradito ospite, è inevitabile ricorrere all’esorcista. E gli esorcisti, negli ultimi tempi, ne stanno sentendo davvero delle ‘belle’: il Maligno continua a lamentarsi, Benedetto XVI è diventato uno dei suoi incubi più ricorrenti. E, sebbene sia il mentitore per antonomasia, questa volta c’è da credergli: tutto il Magistero del Papa va nella direzione della lotta a Satana. Come ci ha raccontato in esclusiva Monsignor Andrea Gemma qualche settimana fa, il Diavolo, sin dall’elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio, ha iniziato a tremare. Erano trascorsi pochi giorni dall’arrivo di Benedetto XVI sulla Cattedra di Pietro che, durante un esorcismo (ce ne fossero di Vescovi come Monsignor Gemma che esercitano questo ministero!), il Maledetto disse: “Il nuovo Papa è ancora più forte di quello di prima (Giovanni Paolo II, ndr) e ci farà soffrire molto”. E, in effetti, così sembra essere. L’ultimo intervento in ordine di tempo contro Lucifero, intanto, Benedetto XVI lo ha pronunciato appena qualche giorno fa, Domenica scorsa: vivere la Quaresima, ha sottolineato all’Angelus, significa affrontare e combattere la causa di tutti i mali, Satana appunto, portando la Croce di Cristo. Ma l’emblema della guerra spirituale dichiarata dalla Chiesa di Ratzinger al Diavolo è racchiuso tutto nelle parole rivolte l’anno scorso dallo stesso Benedetto XVI ai fedeli di una parrocchia romana: “Per quanti continuano a peccare senza mostrare nessuna forma di pentimento, la prospettiva è la dannazione eterna, l'Inferno, perché l'attaccamento al peccato può condurci al fallimento della nostra esistenza. E’ il tragico destino che spetta a chi vive nel peccato senza invocare Dio. Solo il perdono divino ci dà la forza di resistere al male e non peccare più. Gesù è venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l'Inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore”. Eh già, c’è poco da fare: davanti alla maestria di Benedetto XVI, Satana è sconfitto in partenza. E conoscendo la sua superbia, è facile immaginare che stia piangendo lacrime amare.

mercoledì 20 febbraio 2008

Troppi abusi liturgici

Monsignor Ranjith: “Troppi abusi liturgici e la Comunione nelle mani non va bene. Auspicabile che i fedeli tornino a inginocchiarsi quando si accostano all’Eucarestia”
di Bruno Volpe
(da www.papanews.it)

CITTA’ DEL VATICANO - La Chiesa è preoccupata dal mancato rispetto dell’Eucarestia, presenza reale e corporale di Cristo nell’Assemblea dei fedeli, e dal numero sempre più elevato di abusi liturgici. ‘Petrus’ ha raccolto l’opinione di Monsignor Albert Malcom Ranjith, illustre Vescovo e apprezzato braccio destro del Cardinale Francis Arinze quale Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Eccellenza, purtroppo la Santa Messa, in Italia e in diverse altre parti del Mondo, continua a non essere celebrata come dovrebbe, con i sacerdoti che si mettono troppo al centro dell’attenzione e inventano al momento formule e riti che non sono assolutamente fedeli al Magistero ufficiale.

"E’ vero, e ritengo che sia davvero triste che alcuni sacerdoti, per fortuna non tutti, continuino ad abusare, con stravaganze inspiegabili, della liturgia che, è bene ricordarlo, non è di loro proprietà ma della Chiesa".

Le andrebbe di lanciare pubblicamente un appello?

"A questi sacerdoti ricordo che devono, e sottolineo devono, rispettare la liturgia ufficiale della Chiesa cattolica. Basta con gli abusi e le interpretazioni personali: la Messa non è uno spettacolo, ma sacrificio, dono e mistero. Non a caso, il Santo Padre Benedetto XVI ci ricorda continuamente di celebrare l’Eucarestia con dignità e decoro".

Veniamo a qualche caso pratico. Alcuni preti si concedono omelie eccessivamente lunghe e non sempre intonate alle letture del giorno…

"Intanto penso che una buona e sana omelia non dovrebbe mai superare gli 8-10 minuti; detto ciò, è necessario che il celebrante studi approfonditamente il Vangelo del giorno e si attenga sempre ad esso, senza svolazzi o inutili giri di parole. L'omelia è parte integrante e complementare del sacrificio Eucaristico, ma non deve assolutamente prevalere".

Eccellenza, veniamo alla questione della Comunione nelle mani: Lei che ne pensa?

"Credo ‘semplicemente’ che bisogni rivedere questa pratica. Come fare? Tanto per iniziare, con una buona catechesi. Sa, purtroppo, molti neanche si rendono conto di chi ricevono nella Comunione, cioè il Cristo, e così si accostano al banchetto Eucaristico con scarsa concentrazione e scarsissimo rispetto".

In concreto, che fare?

"Bisogna recuperare il senso del sacro. Parlo a titolo personale, ma sono convinto dell’urgenza di rivedere la pratica della Comunione elargita nelle mani, tornando a dare la particola ai fedeli direttamente in bocca, senza che essi la tocchino, ribadendo in questo modo che nell'Eucarestia c’è realmente Gesù e che tutti lo devono accogliere con devozione, amore e rispetto".

Non sarebbe il caso di tornare anche a genuflettersi nel momento in cui ci si comunica?

"Ritengo di sì. Questo gesto rappresenterebbe un vero atto di rispetto verso il dono e il mistero dell’Eucarestia".

Ma qualcuno, all’interno stesso della Chiesa, sembra manifestare ‘imbarazzo’ solo all’idea di vedere ripristinata la genuflessione davanti al Santissimo.

"Al di là del ruolo che ricopro in Vaticano, come cattolico mi domando e chiedo: perchè vergognarsi di Dio? La genuflessione al momento della Comunione sarebbe un atto di umiltà e di riconoscimento della nostra natura di figli di Dio".

"UN SOLO RITO ROMANO!


Lettera del 2003, dell'allora Card. Joseph Ratzinger, in cui sostiene, come teologo privato, che in futuro preferirebbe un solo Rito romano, più o meno come l'attuale Rito Extraordinario. Le decisioni del recente Motu proprio, intese a liberalizzare l'uso del Messale antico, potrebbero pertanto implicare che tale rito non deve essere solo eccezione.



Al dott. Heinz-Lothar Barth, 23 giugno 2003

Caro dottor Barth,
la ringrazio cordialmente per la sua lettera del 6 aprile cui trovo il tempo di rispondere solo ora. Lei mi chiede di attivarmi per una più ampia disponibilità del rito romano antico. In effetti, lei sa da sé che non sono sordo a tale richiesta. Nel contempo, il mio lavoro a favore di questa causa è ben noto.

Al quesito se la Santa Sede «riammetterà l’antico rito ovunque e senza restrizioni», come lei desidera e ha udito mormorare, non si può rispondere semplicemente o fornire conferma senza qualche fatica. È ancora troppo grande l’avversione di molti cattolici, insinuata in essi per molti anni, contro la liturgia tradizionale che con sdegno chiamano «preconciliare». E si dovrebbe fare i conti con la considerevole resistenza da parte di molti vescovi contro una riammissione generale.
Diverso è tuttavia pensare a una riammissione limitata. La stessa domanda verso l’antica liturgia è limitata.

So che il suo valore, naturalmente, non dipende dalla domanda nei suoi confronti, ma la questione del numero di sacerdoti e laici interessati, ciononostante, gioca un certo ruolo. Oltre a ciò, una tale misura, a soli 30 anni dalla riforma liturgica di Paolo VI, può essere attuata solo per gradi. Qualunque ulteriore fretta non sarebbe di sicuro buona cosa.
Credo tuttavia, che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per I vescovi e per i preti è difficile da «gestire» in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso – più scelta di prima, ma non troppa –, una «oratio fidelium», cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione.
Caro dott. Barth, se lei si impegnerà a lavorare per la causa della liturgia in questa maniera», sicuramente non si troverà solo, e preparerà «l’opinione pubblica ecclesiale» a eventuali misure in favore di un uso esteso dei libri liturgici di prima. Tuttavia bisogna essere attenti a non risvegliare aspettative troppo alte o massimali tra i fedeli tradizionali.

Colgo l’occasione per ringraziarla del suo apprezzabile impegno per la liturgia della Chiesa romana nei suoi libri e nelle sue lezioni, anche se qua e là desidererei ancora più carità e comprensione verso il magistero del papa e dei vescovi. Possa il seme da lei seminato germinare e portare molto frutto per la rinnovata vita della Chiesa la cui «sorgente e culmine», davvero il suo vero cuore, è e deve rimanere la liturgia.
Con piacere le impartisco la benedizione che lei ha domandato. Saluti sinceri.
+ Joseph Cardinal Ratzinger

domenica 17 febbraio 2008

Gli aspetti liturgici che incidono sull'arte

CITTA' DEL VATICANO, sabato, 16 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento pronunciato da monsignor Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, in occasione della Giornata di studio sul tema “Maestà e bellezza nel Suo santuario. L'arte a servizio della liturgia” organizzato il 1° dicembre 2007 in Vaticano.




* * *

La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano Secondo afferma che la Chiesa “è stata sempre amica delle arti liberali ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente perché le cose appartenenti al culto sacro fossero veramente degne, decorose e belle, segni e simboli delle realtà soprannaturali, ed ha formato degli artisti”.1

Partendo da questa dichiarazione importante della Sacrosanctum Concilium vorrei presentare, in modo piuttosto essenziale, gli aspetti liturgici che incidono sull’arte. Anzitutto riconsideriamo ora i fondamenti teologici del rapporto fra liturgia e arte. Poi accenneremo a tre elementi particolari mediante i quali la liturgia incide sull’arte: le immagini sacre, la musica sacra e la lingua sacra.

1. Fondamenti teologici

Per la Chiesa, che ha ben presente l’“autonomia delle realtà terrene”, rettamente intesa2, l’arte assolve principalmente ad una funzione di culto. Esso è l’essenza del fenomeno religioso, il quale, se ha dimensioni personali ed intime, ha pure necessariamente espressioni comunitarie e pubbliche. Gli edifici sacri, le immagini, gli arredi, le suppellettili, i libri liturgici, gli stessi testi liturgici e il repertorio musicale, sono opere d’arte che nascono per essere poste a servizio del culto divino.

L’arte non è un elemento estrinseco alla Liturgia e neppure è puramente decorativo; essa è piuttosto parte integrante del culto, come mette in rilievo Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza.

La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore”.3

1.1 Arte al servizio del culto divino nell’Antico Testamento

Lo storico d’arte Timothy Verdon, riflettendo sul “genio artistico della liturgia”, osserva che “[i]n quasi tutte le culture antiche, l’arte monumentale ha carattere religioso e specificamente cultuale. Viene prodotta cioè al servizio della liturgia, come ‘visibilità del mistero’. La liturgia poi – il complesso di riti con cui una civiltà esterna il suo rapporto con Dio – è in sé opera artistica e generatrice d’arte”. “In alcune culture”, Mons. Verdon continua, “l’estro creativo al servizio del culto è considerato addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme … è pensata in rapporto al sacro. Nell’Antico Testamento, per esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e ‘gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario’, vengono istruiti da Mosè in persona, perché facciano ‘ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato’ (Esodo 36,1)”.4

L’esodo nel deserto rappresentò per Israele l’esperienza fondante della sua formazione a popolo di Dio. Momenti significativi di questo itinerario sono non solo il passaggio del Mar Rosso, in cui Dio manifesta la sua potenza salvifica (cfr Esodo 14, 15 – 15, 21), o la proclamazione dell’Alleanza e la consegna del Decalogo a Mosé, come segno di predile­zio­ne di Israele (cfr Esodo 19, 1 – 20, 21), ma anche la costruzione ed erezione del santuario, con l’indicazione dei materiali da utilizzare e la descrizione minuziosa degli arredi e dei paramenti sacerdotali, che occupa ben sedici capitoli del libro dell’Esodo (cc. 25-31 e 35-40). È evidente che l’organizzazione del culto mediante le prescrizioni dei riti, comprensive delle indicazioni relative agli oggetti funzionali alla esecuzione di questi ultimi con precisione e splendore, è considerata nella Sacra Scrittura il mezzo più importante per realizzare l’incontro di Dio con il suo popolo.

In ciò certamente Israele, rispetto agli altri popoli con i quali era in contatto non ha portato nella forma del culto innovazioni decisive. Esso attingeva sostanzialmente al sentimento religioso universale che porta l’uomo a rivolgersi alla divinità offrendole i frutti migliori del proprio lavoro come ringraziamento e come invocazione; un sentimento riflesso nei sacrifici di Caino e di Abele descritti nella Genesi (4, 3-5). La novità assoluta del culto giudaico consisteva piuttosto nel fatto che esso fosse rivolto ad un unico Dio e che contenesse in sé i germi di una sua spiritualizzazione che, annunciata dai profeti (Ezechiele, Geremia, Michea), si sarebbe realizzata in Cristo.

1.2 Culto in spirito e verità nella Nuova Alleanza

Durante il Suo incontro con la donna di Samaria presso il pozzo di Giacobbe, Gesù dichiara che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Giovanni 4, 23).

Come spesso nel Vangelo secondo Giovanni, che i Padri della Chiesa hanno denominato “il Vangelo spirituale”, si possono cogliere alcuni sensi complementari.

In primo luogo, il culto cristiano è distinto dal culto dei samaritani e degli ebrei, perché esso è “in spirito”, cioè non è limitato ad un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani ed il tempio di Gerusalemme per gli ebrei. Questo non significa che, sotto il Vangelo, non ci debbano essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessun edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, anche solo per il fatto che quasi duemila anni della Traditio Ecclesiae parlano contro di esso. Il Signore non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; così nella profezia sulla distruzione del tempio, il Maestro divino non afferma per nulla che non si dovrebbe costruire mai più un’altra casa in onore di Dio, ma piuttosto che ci dovrebbero essere molte case. Questa verità ha trovato una bella espressione in un sermone del cardinale John Henry Newman: “La gloria del Vangelo non è l’abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza vivente ed efficace per la grazia di Cristo”.5

In secondo luogo, tornando al discorso di Gesù, il culto cristiano è “in verità”, perché non è compromesso dagli errori di idolatria e di sincretismo, che hanno contagiato i samaritani. C’è una regola antica, risalente al quinto secolo, che è citata spesso nella formula: lex orandi, lex credendi. Dovremmo essere prudenti circa l'interpretazione di questo principio, dato che la fede non viene dalla liturgia, piuttosto la celebrazione dei misteri della fede presuppone l’annuncio del Vangelo. Ciò nonostante, il culto pubblico è espressione e testimonianza della fede infallibile della Chiesa e dovrebbe aiutare a comprendere in senso profondo che i nostri desideri e le nostre aspirazioni verso tutto quello che è buono, che è vero, che è bello, sono radicati ed esauditi nella realtà trascendente di Dio.

Il culto “in spirito e verità” propugnato da Gesù, non è mai stato avvertito dalla Chiesa come una rinuncia alla forma esteriore di adorazione e di lode a Dio; si deve piuttosto intendere il cristianesimo come una religione in cui gli aspetti esteriori sono espressione della purezza del cuore e delle virtù.

1.3 Considerazioni teologico-antropologiche

San Tommaso d’Aquino è molto chiaro nell’osservare che dobbiamo rendere onore a Dio non solo in spirito. Poiché gli uomini sono creature corporee, i sensi sono sempre coinvolti. Poiché la mente umana conosce l'invisibile per mezzo del visibile, ne consegue che “nel culto divino è necessario usare le cose corporee, che la mente dell'uomo viene mossa dai segni a compiere quegli atti spirituali per mezzo dei quali si compie l’unione con Dio”.6

Non siamo “puri spiriti”, ma siamo fatti di anima e di corpo, è per questo motivo che abbiamo bisogno dei segni sensibili per purificare il nostro cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile. Comunque, S. Tommaso riconosce che il fine della liturgia è l'offerta spirituale compiuta da coloro che partecipano ad essa. Ma l'unione del corpo e dell'anima è tale che l'espressione interna dell'anima, se è genuina, cerca allo stesso tempo una manifestazione corporea esterna. La vita interna è sostenuta dagli atti esterni, atti liturgici. Il Doctor communis osserva: “Le cose esterne sono offerte a Dio, non come se aveste bisogno di esse … ma come segni delle opere interne e spirituali, che sono accettabili a Dio”.7 È alla volontà provvidenziale di Dio che dovremmo offrire i segni visibili della nostra offerta spirituale, perché è dai segni esterni che gli esseri umani, come creature corporee, comunicano.8

In questo senso, il decreto del Concilio di Trento sul sacrificio della S Messa, in un passaggio importante del suo primo capitolo, citato poi nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dichiara: “[Cristo] Dio e Signore nostro … nell’ultima Cena, la notte in cui fu tradito (1 Cor 11,23), [volle] lasciare alla Chiesa, sua amata Sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una volta per tutte sulla croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e (1 Cor 11,23), applicando la sua efficacia salvifica alla remissione dei nostri peccati quotidiani”.9

Ciò che interessa specificamente la nostra riflessione è la descrizione del sacrificio eucaristico come “visibile”, a cui il Concilio aggiunge la proposizione “come esige l’umana natura”. Nel quinto capitolo dello stesso decreto questa proposizione è così spiegata: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza accorgimenti esteriori, per questa ragione la Chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti … . Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molto altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui viene messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli vengono attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio”.10

L’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli non è una semplice cena; è necessario comprendere che si tratta della Cena in cui Cristo offre se stesso anticipando il suo sacrificio del Calvario e istituendo per noi il sacramento del suo corpo e del suo sangue. Per tale motivo occorre prestare attenzione a non banalizzare la celebrazione dell’Eucaristia. In tal senso anche l’arte sacra deve aiutare a far capire che si tratta del sacrificio di Dio fatto uomo, evitando che le cose attorno all’altare siano banali, come anche i canti e la musica

1.4 Insegnamenti del Magistero e testimonianza dei Santi

Nella sua ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, alla parte teologica, in cui è spiegato il fondamento teologico del Sacramento, fa seguire una parte liturgico-artistica in un capitolo intitolato “Decoro della celebrazione liturgica” (nn. 47-52), in cui vengono impartite indicazioni molto importanti per la relazione fra liturgia ed arte.

L’Enciclica afferma che Cristo stesso ha voluto il decoro: per questo si ricordano la preparazione della sala per l’ultima Cena (cf Marco 14, 15; Luca 22, 12) e l’Unzione di Betania (cf Matteo 26, 8 e paralleli), che anticipa l’istituzione dell’Eucarestia. In quest’ultimo episodio, una donna, identificata con Maria sorella di Lazzaro, unge il Signore con olio profumato preziosissimo. Di fronte all’obiezione scandalizzata di Giuda e nella quale non è difficile ravvisare molti atteggiamenti della demagogia dei nostri tempi “Si potrebbe con quei soldi aiutare tanti poveri”, Gesù osservò che mentre i poveri li avrebbero avuti sempre con sé non così Lui, mostrando di apprezzare molto quel gesto della donna, perché compiuto con amore nei confronti della Sua persona. È l’affermazione della bontà del decoro!

Altrove il Papa cita il passo di san Giovanni Crisostomo, in cui si afferma che il decoro non è lusso, e deve sempre essere rapportato ad una povertà essenziale: certamente non è giusto avere calici preziosi e innalzare colonne d’oro, se Cristo muore nel povero sulla strada. Tuttavia la Chiesa è sempre stata sia amante del decoro, sia operosa nella carità. È quanto mai eloquente rilevare come i grandi Santi della carità e della povertà evangelica si siano sempre distinti per l’amore allo splendore del culto divino. Questo fa riflettere, osservare ed anche trarre delle conseguenze. La Chiesa, si legge nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, “non ha temuto di ‘sprecare’, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia ”, di spendere denaro per la bellezza e il decoro. Lo scopo è lo “stupore adorante di fronte al dono incommensurabile”.11 Il decoro ha il fine di suscitare ammirazione per il mistero contenuto nel Sacramento dell’Altare.

Che sia un falso problema contrapporre il valore del spirito di povertà alla preziosità degli arredi lo mostra, tra gli altri, San Francesco, il “poverello” di Assisi, che sempre raccomandò ai suoi frati il massimo rispetto della parola e del corpo del Signore, da esprimersi anche con l’utilizzo di vasi preziosi. Raccomandava infatti nel suo Testamento (1226): “E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso”;12 mentre le sue biografie riportano che “essendo colmo di reverenza per questo venerando sacramento […] volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro”.13

Il decoro è ovviamente, innanzi tutto, un atteggiamento interiore, e l’arte rientra a pieno titolo in esso, perché nell’arte si esprime la percezione della Bellezza ed è al servizio del contenuto. Il decoro sacro è concepito per facilitare la preghiera e lo stupore per il mistero contenuto. Da questa stessa sorgente è nata la liturgia cristiana, che scaturisce dal convito e, quindi, da un clima di festa e di bellezza. Proprio dal desiderio di manifestare esternamente l’interiore atteggiamento di devozione, la Chiesa ha prodotto un ricchissimo patrimonio d’arte, che costituisce una testimonianza di fede in grado di parlare un linguaggio universale attraverso i tempi.

L’atteggiamento della Chiesa, di mettere a disposizione del culto quanto di più bello e prezioso è possibile produrre, al fine di preparare un ambiente degno dei grandi misteri che in esso vengono celebrati, trova preziosa conferma in Gesù stesso. Il Salvatore ha voluto che per l’Ultima Cena i discepoli andassero a preparare quanto occorreva nella casa di un amico che aveva una “sala grande e addobbata” (Luca 22,12). L’enciclica Ecclesia de Eucharistia commenta: “Non meno dei primi discepoli incaricati di predisporre la ‘grande sala’, essa si è sentita spinta lungo i secoli e nell’avvicendarsi delle culture a celebrare l’Eucaristia in un contesto degno di così grande mistero”.14

Pertanto, anche gli arredi, le suppellettili, i paramenti e gli stessi edifici sacri, pur essendo oggetti materiali, rientrano in tale visione spirituale del culto cristiano che, in virtù del mistero dell’Incarnazione di Cristo, non disprezza la materia, ma la considera luogo della manifestazione della gloria di Dio. Si comprende allora come san Giovanni Damasceno abbia giustificato la venerazione delle immagini e l’uso delle sacre suppellettili:

“Ecco anche la materia diviene pregiata, essa che presso di voi è disprezzata. Che cosa è più volgare dei peli di capra e dei colori? O forse non sono colori il cremisi, la porpora ed il giacinto? Ed ecco anche le opere delle mani dell’uomo e le figure dei cherubini: ed inoltre, anche tutto il tabernacolo era un’immagine. Infatti, guarda – dice Dio a Mosé – ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. E tuttavia esso è venerato d’ogni intorno da tutto Israele. E che cosa dovrei dire dei cherubini? Non erano dinanzi allo sguardo del popolo? E l’arca, il candelabro, la tavola, l’urna d’oro e la verga, che il popolo guardava e venerava? Io non venero la materia, ma venero il Creatore della materia che per causa mia è diventato materia, ha preso dimora nella materia e attraverso la materia ha operato la mia salvezza”.15

Per fedeltà alla divina Rivelazione e alla perenne Traditio Ecclesiae, è certamente urgente porre fine a discorsi ed atteggiamenti demagogici, a forme varie di pauperismo e di intellettualismo o di archeologismo, per seguire piuttosto l’esempio dei Santi. È ora anche, nei confronti del Dio-con-noi, che è nel Santissimo Sacramento dell’altare, di lasciar parlare il cuore, di rispondere all’Amore con il linguaggio dell’amore. Allora – come è sempre accaduto – alla dignità del culto divino, alla devota maestà di tutto ciò che ne è l’espressione, conseguirà il fervore della carità verso il prossimo. La carità dimostra la verità del culto e la dignità del culto dimostra la verità della carità.

Per tale motivo la Chiesa, nelle varie disposizioni in materia di celebrazione e di culto eucaristico, non omette mai di raccomandare la preziosità dei vasi sacri destinati ad accogliere il corpo e il sangue del Signore durante la S. Messa (calice, patena, pisside) e durante l’adorazione eucaristica (ostensorio, teca). Recentemente la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti ha emanato una istruzione “su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la santissima Eucaristia” in cui, tra l’altro, ricorda che tali oggetti devono essere forgiati con materiali considerati nobili a seconda delle varie regioni e culture (pertanto l’oro o altri metalli preziosi, ma anche pietre dure, legni pregiati ecc.) ed evitati contenitori di uso comune o privi di qualsiasi valore artistico (come cestini, vasi di vetro, di argilla o di altro materiale fragile o poroso), e questo perché “con il loro uso si renda onore al Signore e si eviti completamente il rischio di sminuire agli occhi dei fedeli la dottrina della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche”.16 Questi non sono solo consigli, ma disposizioni da porre in pratica universalmente. Disposizioni molto, molto disattese. Non credo sarebbe pastoralmente utile produrre Istruzioni per spiegare o attuare l’Istruzione o e poi applicare il sistema diffuso del silenziatore.

2. Orientamenti pratici

Consideriamo ora tre aspetti del modo nel quale la liturgia incide sull’arte: immagini sacre, musica sacra e lingua sacra.

2.1 Immagine sacre

Il messaggio evangelico non è solo verbale, perché il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14). Le Sacre Scritture annunciano che il Cristo è “immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), “irradiazione della … gloria [del Padre] e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). Gesù stesso afferma “chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9): cioè, nel mistero della persona di Cristo rifulge in forma sensibile l’intera realtà divina, consegnando alla fede cristiana un insostituibile contenuto visivo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di Dio si è fatta “visibile” agli uomini, come risposta alle esigenze della natura umana. In una conferenza pronunciata nel 1981, l'allora cardinale Joseph Ratzinger diceva: “Per accostarsi al mistero di Dio l'uomo ha bisogno di vedere, di fermarsi a vedere, e di fare sì che tale vedere divenga un toccare. Egli deve salire la 'scala' del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita”.17 Il Verbo che si è fatto visibile diventò pertanto il volto o l’icona di Dio. L’importanza dell’arte sacra della tradizione liturgica e devozionale dei cristiani va colta proprio in questa prospettiva.

Il mistero del Verbo fatto carne fornisce la base e l’argomentazione del culto delle immagini. La rappresentazione di Dio - superando l'esplicito divieto dell'Antico Testamento (cf Es 20, 4 e Dt 5, 8) - nella Nuova Economia è resa possibile dall'Incarnazione del Figlio di Dio. Dio stesso ha fatto la sua immagine, Gesù Cristo. Nell’Incarnazione, l’invisibile vita di Dio è diventata visibile agli uomini avviando l’ininterrotta serie di stagioni che hanno raccolto le opere dei più grandi artisti.

Eppure, nella storia della Chiesa, non sono mancate discussioni e polemiche su questo culto. Al periodo delle persecuzioni fece seguito il periodo della costruzione delle grandi basiliche e si accese la discussione sulle sacre immagini, poiché si paventava il rischio dell’idolatria. Non si può dimenticare al riguardo il Sinodo di Elvira (304) quando afferma: Picturas in ecclesia esse non debere, ne quod colitur et adoratur in parietibus depingatur. Ricordiamo anche la teologia anti-iconica di Eusebio di Cesarea nella sua lettera all’imperatrice Costanza. Questa lettera fu una delle testimonianze patristiche di ostilità alle immagini, che gli iconoclasti di Bisanzio, nell’ottavo secolo, usavano per appoggiare la propria lotta. Nella teologia di Eusebio, il grande storico della Chiesa, esiste veramente una connessione tra la sua opposizione all’icona di Cristo, il suo pensiero generale sull’immagine e la sua concezione molto spiritualistica dei sacramenti. Si nota che la questione delle immagini sacre è, in fondo, una questione teologica. Il fenomeno iconoclastico è presente in vari periodi della storia del cristianesimo; oltre a quello del movimento iconoclasta bizantino, risultato di molte e complesse cause, non dimentichiamo quello del calvinismo all’inizio dell’età moderna; anche il XX secolo ha conosciuto scuole di teologia sprezzanti nei confronti delle rappresentazioni figurative nell’arte sacra. In ogni caso, movimenti iconoclasti sono sempre sintomatici di una crisi di fede nel mistero dell’Incarnazione.

Tuttavia il sensus fidei dei cristiani, la riflessione teologica, il Magistero della Chiesa e gli esempi dei Santi sono sempre stati a favore dell’arte e dell’iconografia. I papi dell’VIII e IX secolo diedero il proprio appoggio al decreto del Concilio di Nicea II (787) che dichiarava legittimo il possesso e la venerazione delle immagini di Cristo, della Vergine, degli Angeli e dei Santi. Da san Gregorio Magno ai teologi scolastici (san Tommaso d’Aquino, san Bonaventura da Bagnoregio, Guglielmo Durando) si sviluppò un discorso di legittimazione che riconosceva alle immagini un triplice ruolo: mistagogico o memorialistico (esse ricordano), didattico (esse insegnano), affettivo (esse commuovono).

In primo luogo, le immagini mistagogiche sono capaci di presentare sinteticamente il mistero di Cristo (Incarnazione, Passione, Risurrezione, Parusia); la croce monumentale assolve a questo scopo, ma la tradizione iconografica ci presenta altri modelli (Ascensione, Pantocrator, Trasfigurazione ecc.); tali immagini sono adatte ad essere collocate sulla parete di fondo del presbiterio, per costituire un sacro fondale alla celebrazione eucaristica. A queste la tradizione ha affiancato immagini simboliche evocanti il sacrificio della S. Messa (come l’Agnello dell'Apocalisse).

In secondo luogo, sono importanti anche le immagini didascaliche, preferibilmente di soggetto biblico, organizzate in un programma iconografico pensato per trasmettere un contenuto catechetico di illustrazione della storia della salvezza. In questa categoria possono anche rientrare i programmi decorativi degli arredi sacri (altare, ambone, battistero ecc.), con episodi adatti, scelti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento sulla base, ad esempio, della lettura tipologica (o profezia).

La terza categoria è quella delle immagini devozionali, che comprende una tipologia molto variegata. Vi si trovano infatti le immagini di Cristo (Sacro Cuore, Crocifisso miracoloso ecc.), della Vergine e dei Santi, patroni della città o della chiesa o comunque venerati da quella comunità cristiana; oggetto di culto pubblico e di devozione privata, ci ricordano la comunione con la Chiesa celeste.

Mi sembra che sia ancora attuale quanto dice Pio XII nella Mediator Dei ove raccomanda di evitare “con saggio equilibrio l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra, tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana, piuttosto che del giudizio e del gusto personale degli artisti”(IV,2).

2.2 Musica sacra

La tradizione ecclesiale ha sempre affermato che il canto e la musica sacri, nell’offrire gloria a Dio nella solennità delle celebrazioni, favoriscono la preghiera e la partecipazione attiva ai santi misteri di quanti vi assistono, unendoli alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Nel santificare i fedeli e nell’educarne il gusto, il canto sacro rende anche esplicita la misteriosa unità del corpo mistico. Sant’Agostino descrive nelle sue Confessioni la viva commozione provata a Milano nel partecipare a celebrazioni in cui i fedeli eseguivano il canto dei salmi e degli inni di sant’Ambrogio.18 In un suo sermone lo stesso sant’Agostino dice: “L’uomo nuovo sa qual’è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia e, se pensiamo a ciò con un po’ più di attenzione, è espressione di amore”.19

Numerosi documenti pontifici e conciliari dell’ultimo secolo hanno richiamato alla celebrazione dei divini uffici solennemente e in canto, alla presenza attiva dei fedeli.20 Si deve però purtroppo osservare che, negli ultimi anni, forse sottovalutando l’apprendimento e il gusto estetico di un’assemblea che, fino a poco tempo prima, conosceva bene e a memoria melodie gregoriane, abitualmente siano invece proposti canti e canzoni, peraltro neppure coinvolgenti l’assemblea, spesso mancanti nella forma e nel contenuto. Da parte sua, peraltro, il Magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nell’esecuzione di un repertorio spesso anche complesso, ma ritiene che dal buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso”.21 Andrebbe anche chiarito cosa debba intendersi correttamente per partecipazione attiva: in sintesi, non si tratta semplicemente di prendere parte alla liturgia ma di avere coscienza di appartenere a Cristo, d’essere parte del Corpo ecclesiale di cui Cristo è il Capo.

Il canto gregoriano, intimamente unito alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, fa parte della lex orandi, che si è forgiata sull’arco di più di quindici secoli. Che l’assemblea dei fedeli, nella celebrazione della sacra liturgia, e specialmente nella Santa Messa, partecipi cantando in gregoriano le parti che le spettano, è non solo possibile, ma è anzitutto auspicabile. Non è una opinione personale, ma è il pensiero della Chiesa! Si veda a tal proposito l’ampia documentazione che va dal Motu proprio Tra le sollecitudini di San Pio X fino ai giorni nostri, passando attraverso Pio XII (Musicae sacrae disciplina), il cap. VI della Costituzione sulla Liturgia del Vaticano II, la successiva Istruzione dell’allora Congregazione dei Riti del 1967, e il chirografo di Giovanni Paolo II del 2003, commemorativo del centenario del Motu proprio Tra le sollecitudini.

Nella sua Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI afferma: “La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l’altro. A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l’introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto - nel testo, nella melodia, nell’esecuzione - deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana”.22

Il canto gregoriano assembleare non solo può ma deve essere ripristinato, accanto a quello della schola e dei celebranti, se si vuole il rispetto dell’insegnamento del Vaticano II, il ritorno alla serietà della liturgia, alla santità, alla bontà delle forme e all’universalità che devono caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, come insegna San Pio X e ribadiscono sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI. Credo si potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, dai canti dell’ordinario della S. Messa, specie il Kyrie, il Sanctus, l’Agnus Dei. In molti paesi il popolo conosceva bene il Credo III e l’intero ordinario della messa VIII (de Angelis), e non solo! Come sapeva pure il Pange lingua, il Veni Creator, la Salve Regina e altre antifone. L’esperienza insegna che il popolo, a seguito di un semplice invito, si mette a cantare anche la Missa brevis e altre melodie gregoriane facili, che ha nell’orecchio, anche se è la prima volta che le canta. C’è un repertorio minimo da imparare, contenuto nel famoso “Jubilate Deo” di Paolo VI, ma dove è finito?, o nel “Liber cantualis”, ma dove è finito? Se si abitua il popolo a cantare quel repertorio gregoriano che gli si confà, sarà allenato a imparare anche i canti nuovi nelle lingue vive; quei canti, si intende, degni di stare accanto al repertorio gregoriano, che dovrebbe conservare sempre il primato. La questione è che devono cadere i pregiudizi ideologici!

Senza il canto gregoriano la musica di chiesa è mutilata. Non può esserci musica di chiesa, nella Chiesa latina, senza canto gregoriano. I grandi maestri della polifonia sono ancora più grandi quando si basano sul canto gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmia. Per questo spirito che ne informa la raffinata tecnica, per questa fedele aderenza al testo sacro e al momento liturgico, sono stati grandi Palestrina, di Lasso, da Victoria, Guerrero, Morales, e via dicendo. E non solo nelle composizioni complesse o corali, ma anche nel creare nuove melodie, in latino o in volgare, sia per la liturgia che per gli atti devozionali. Il vero canto popolare sacro - peraltro preziosissimo - tanto più sarà valido e sostanzioso quanto più si ispirerà al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha fatto integralmente suo il noto principio di San Pio X: “Una composizione di chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nell’ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”.23

Il canto gregoriano riecheggerà suadente, e amalgamerà il popolo nel vero senso della cattolicità. E lo spirito del canto gregoriano informerà le composizioni di nuovo conio, e guiderà col vero sensus Ecclesiae gli sforzi di una retta inculturazione. Bisogna ricordare che questa musica era insolita anche alle orecchie di Carlo Magno o di san Tommaso d’Aquino, di Monteverdi o di Haydn. Ed era tanto estranea ai tempi loro quanto lo è ai nostri giorni. Oggi, tuttavia, si è meglio disposti verso la musica di altre culture di quanto non lo fossero i cristiani di molti secoli fa. Anzi, direi che le melodie delle varie tradizioni locali, anche di paesi lontani e di cultura ben diversa dalla nostra, sono parenti prossimi del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale, a tutti proponibile, e capace di fare da ponte, nel rispetto dell’unità e della pluralità. D’altronde sono proprio questi paesi lontani, queste culture che si sono affacciate di recente sull’orizzonte della Chiesa cattolica ad insegnarci l’amore per il canto tradizionale della Chiesa. L’educazione ecclesiale autentica va sempre nel senso della continuità e tale continuità è ben lungi dall’essere fissismo. Si cammina “in eodem sensu” e si cammina arricchendosi, non depauperandosi.

2.3 Lingua sacra

Non voglio chiudere queste riflessioni sugli aspetti liturgici che incidono sull’arte senza far notare una delle numerose brevi opere letterarie che la liturgia stessa contiene. Intendo le orazioni del rito romano, soprattutto quelle antiche della domenica. Il latino liturgico era un fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della Rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Dato che il latino del Canone Romano e delle orazioni della S. Messa era una lingua fortemente stilizzata e rimossa dall’idioma della gente comune, non si tratta semplicemente di un’adozione della lingua “vernacola” nella liturgia. La forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l’unica lingua liturgica dell’Occidente. Questo fu un fattore importante per favorire la sua coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Queste composizioni hanno un valore artistico-letterario che è ben apprezzato anche dai filologi. Un autorevole dizionario tedesco di letteratura dice: “Gran parte delle orazioni … e dei prefazi è stata tramandata nei sacramentari del V e VII secolo. In tutti questi testi – soprattutto da una prospettiva strettamente letteraria – è presente la sostanza del Missale Romanum: creazioni di alta espressività teologica, modellate sulle regole della prosa letteraria della tarda latinità. Forme di una monumentale semplicità e di un’affascinante precisione. Esse, conservate essenzialmente immutate, sono di una tale perfezione da essere ancor oggi la forma di preghiera della Chiesa cattolica”.24

Le orazioni mantengono una classica generalità, perché esse sono la preghiera pubblica della Chiesa per tutta l’umanità, tuttavia hanno un contenuto che riesce a toccare anche il singolo lettore, perché in esse la Chiesa esprime la sua confidenza nella Grazia di Dio, che solo può aprire il cuore dell’uomo peccatore. Perciò, quelle orazioni succinte quanto sostanziose costituiscono una scuola di sensibilità sacramentale.

Quindi non sorprende che la Chiesa riaffermi il valore perenne della lingua latina nella liturgia. Come dice il Santo Padre nella sua recente Esortazione Apostolica Post-Sinodale: “Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia”.25 Solo che quanto il Santo Padre chiede dovrebbe subito diventare prassi. La “communio” deve essere effettiva non solo “applauditiva”. Già il Vaticano II chiedeva che tutti i fedeli sapessero rispondere anche in latino. È un “anche” e non un “solo”. Tutto si può fare con equilibrio e senza fanatismi di sorta e senza polemiche. Questo è lo stile ecclesiale. Ma cosa è successo della richiesta del Concilio?

In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune serve come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico, che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l’istruzione della Congregazione per il Culto Divino Liturgiam authenticam del 2001.26

3. Conclusione

Infine, vorrei sottolineare la necessità di formazione iniziale e permanente, innanzitutto del clero, a seguito di una serie di documenti del Magistero, dal Decreto del Concilio Vaticano II sulla formazione sacerdotale Optatam totius alla recente Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis del Santo Padre Benedetto XVI.27 Certamente il primo lavoro da fare riguarda la formazione dei candidati al sacerdozio, chiamati ad essere promotori delle arti sacre. Purtroppo sempre più diffusamente si constata una carenza quanto mai grave, di una vera educazione alla grande tradizione artistica della Chiesa, anzi talvolta della più elementare formazione musicale e il prosperare di banalità, di cattivo gusto, di rozzezza, di superficiali giovanilismi. Anche la formazione permanente del clero ad un’autentica comprensione ed utilizzazione dei beni culturali e artistici in senso ecclesiale è un’esigenza del nostro tempo. Naturalmente ogni cosa bella e buona ha un costo. Sebbene sia molto importante la buona volontà, a volte questa non basta. Per ottenere buoni risultati, è necessario investire delle risorse, soprattutto nella formazione, nella quale vanno impiegati veri professionisti, anche a tempo pieno. Dobbiamo ricordare che la formazione artistica e musicale del clero non è un lusso, ma fa parte dell’ars celebrandi. Così si serve anche alla santificazione del clero nell’esercizio stesso del sacro ministero.

La liturgia, con l’arte e la musica sacre, serve a far incontrare l’uomo con la bellezza della fede: “Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la Bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità…la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i santi, a entrare in contatto col Bello”(Joseph Ratzinger, Intervento al Meeting di Rimini 2002).






+ Mauro Piacenza

Arcivescovo tit. di Vittoriana

Segretario della Congregazione per il Clero

********************************

1 Sacrosanctum Concilium, 122.

2 Gaudium et spes, 36.

3 Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-Sinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, 35.

4 T. Verdon, Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica, Milano 2003, p. 13.

5 J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons VI, 19: ‘The Gospel Palaces’, San Francisco 1997, p. 1355: “The glory of the Gospel is not the abolition of rites, but their dissemination; not their absence, but their living and efficacious presence through the grace of Christ”.

6 S.Th. II-II, q. 81, a. 7

7 S.Th. II-II, q. 81, a. 7, ad 2.

8 Cfr III, q. 61, a. 1.

9 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1740; citato in CCC, 1366.

10 Concilio di Trento, Sessione XXII (1562), DS 1746.

11 Ecclesia de Eucharistia, 48.

12 Fonti Francescane, pp. 131-132.

13 Tommaso da Celano, Vita seconda, in Fonti Francescane, p. 713.

14 Ecclesia de Eucharistia, 48.

15 San Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre 2, 14: Es 25, 31-40.

16 Congregazione per il Culto Divino, Redemptionis Sacramentum, 24 aprile 2004, n. 117.

17 J. Ratzinger, Il Mistero pasquale. Contenuto e fondamento profondo della devozione al Sacro Cuore di Gesù, in Id., Guardare al Crocifisso. Fondazione teologica di una cristologia spirituale, Milano 1992, pp. 43-61, part. p. 49 (Conferenza al Congresso sul Sacro Cuore di Gesù, Toulouse, 24-28 luglio 1981).

18 Sant’Agostino, Confessioni IX, 7, 15-16.

19 Sant’Agostino, Sermo 34, 1.

20 Sacrosanctum Concilium, 113

21 Giovanni Paolo II, Chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003.

22 Sacramentum Caritatis, 42; Cfr. Sacrosanctum Concilium, 166; Ordinamento Generale del Messale Romano, 41.

23 Tra le Sollecitudini 3; Mosso dal vivo desiderio, 12.

24 Kindlers Literaturlexikon, vol. IV (1968), col. 2721.

25 Sacramentum Caritatis, 62.

26 Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Quinta Istruzione “per la retta Applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II” (Sacrosanctum Concilium, art. 36). Liturgiam authenticam: L’Uso delle Lingue Vernacole nella Pubblicazione dei Libri della Liturgia Romana, Città del Vaticano 2001.

27 Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 6; Codice di Diritto Canonico, can. 241, § 1 e can. 1029; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 342, § 1 e can. 758; Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992) 11.34.50; Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri Dives Ecclesiae (31 marzo 1994), 58; Sacramentum Caritatis, 21.

venerdì 15 febbraio 2008

Benedetto XVI:
l’una e unica Chiesa di Cristo ha la sua sussistenza, permanenza e stabilità nella Chiesa Cattolica pertanto l’unità, l’indivisibilità e l’indistruttibilità della Chiesa di Cristo non vengono annullate dalle separazioni e divisioni dei cristiani.

UDIENZA
AI PARTECIPANTI
ALLA SESSIONE PLENARIA
DELLA
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
31.01.2008



Signori Cardinali,Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
carissimi e fedeli Collaboratori!


E’ per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della vostra Sessione Plenaria. Posso così parteciparvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento che provo per il lavoro che il vostro Dicastero svolge al servizio del ministero di unità, affidato in special modo al Romano Pontefice. E’ un ministero che si esprime primariamente in funzione dell’unità di fede, poggiante sul "sacro deposito", di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore (cfr Cost. ap. Pastor Bonus, 11). Ringrazio il Signor Cardinale William Levada per i sentimenti che, a nome di tutti, ha espresso nel suo indirizzo e per il richiamo dei temi che sono stati oggetto di alcuni Documenti della vostra Congregazione in questi ultimi anni e delle tematiche che tuttora impegnano l’esame del Dicastero.


In particolare, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato l’anno scorso due Documenti importanti, che hanno offerto alcune precisazioni dottrinali su aspetti essenziali della dottrina sulla Chiesa e sull’Evangelizzazione. Sono precisazioni necessarie per lo svolgimento corretto del dialogo ecumenico e del dialogo con le religioni e le culture del mondo. Il primo Documento porta il titolo "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" e ripropone anche nelle formulazioni e nel linguaggio l’insegnamento del Concilio Vaticano II, in piena continuità con la dottrina della Tradizione cattolica. Viene così confermato che l’una e unica Chiesa di Cristo ha la sua sussistenza, permanenza e stabilità nella Chiesa Cattolica e che pertanto l’unità, l’indivisibilità e l’indistruttibilità della Chiesa di Cristo non vengono annullate dalle separazioni e divisioni dei cristiani. Accanto a questa precisazione dottrinale fondamentale, il Documento ripropone l’uso linguistico corretto di certe espressioni ecclesiologiche, che rischiano di essere fraintese, e richiama a tal fine l’attenzione sulla differenza che ancora permane tra le diverse Confessioni cristiane nei riguardi della comprensione dell’essere Chiesa, in senso propriamente teologico. Ciò, lungi dall’impedire l’impegno ecumenico autentico, sarà di stimolo perché il confronto sulle questioni dottrinali avvenga sempre con realismo e piena consapevolezza degli aspetti che ancora separano le Confessioni cristiane, oltre che nel riconoscimento gioioso delle verità di fede comunemente professate e della necessità di pregare incessantemente per un cammino più solerte verso una maggiore e alla fine piena unità dei cristiani. Coltivare una visione teologica che ritenesse l’unità e identità della Chiesa come sue doti "nascoste in Cristo", con la conseguenza che storicamente la Chiesa esisterebbe di fatto in molteplici configurazioni ecclesiali, riconciliabili soltanto in prospettiva escatologica, non potrebbe che generare un rallentamento e ultimamente la paralisi dell’ecumenismo stesso.


L’affermazione del Concilio Vaticano II che la vera Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica" (Cost. dogm. Lumen gentium, 8) non riguarda soltanto il rapporto con le Chiese e comunità ecclesiali cristiane, ma si estende anche alla definizione dei rapporti con le religioni e le culture del mondo. Lo stesso Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa afferma che "questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla a tutti gli uomini" (n. 1). La "Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione" - l’altro Documento pubblicato dalla vostra Congregazione nel dicembre 2007 -, a fronte del rischio di un persistente relativismo religioso e culturale, ribadisce che la Chiesa, nel tempo del dialogo tra le religioni e le culture, non si dispensa dalla necessità dell’evangelizzazione e dell’attività missionaria verso i popoli, né cessa di chiedere agli uomini di accogliere la salvezza offerta a tutte le genti. Il riconoscimento di elementi di verità e bontà nelle religioni del mondo e della serietà dei loro sforzi religiosi, lo stesso colloquio e spirito di collaborazione con esse per la difesa e la promozione della dignità della persona e dei valori morali universali, non possono essere intesi come una limitazione del compito missionario della Chiesa, che la impegna ad annunciare incessantemente Cristo come la via, la verità e la vita (cfr Gv 14,6).


Vi invito inoltre, carissimi, a seguire con particolare attenzione i problemi difficili e complessi della bioetica. Le nuove tecnologie biomediche, infatti, interessano non soltanto alcuni medici e ricercatori specializzati, ma vengono divulgate attraverso i moderni mezzi di comunicazione sociale, provocando attese ed interrogativi in settori sempre più vasti della società. Il Magistero della Chiesa certamente non può e non deve intervenire su ogni novità della scienza, ma ha il compito di ribadire i grandi valori in gioco e di proporre ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà principi e orientamenti etico-morali per le nuove questioni importanti. I due criteri fondamentali per il discernimento morale in questo campo sono a) il rispetto incondizionato dell’essere umano come persona, dal suo concepimento fino alla morte naturale, b) il rispetto dell’originalità della trasmissione della vita umana attraverso gli atti propri dei coniugi. Dopo la pubblicazione nel 1987 dell’Istruzione Donum vitae, che aveva enunciato tali criteri, molti hanno criticato il Magistero della Chiesa, denunciandolo come se fosse un ostacolo alla scienza e al vero progresso dell’umanità. Ma i nuovi problemi connessi, ad esempio, con il congelamento degli embrioni umani, con la riduzione embrionale, con la diagnosi pre-impiantatoria, con le ricerche sulle cellule staminali embrionali e con i tentativi di clonazione umana, mostrano chiaramente come, con la fecondazione artificiale extra-corporea, sia stata infranta la barriera posta a tutela della dignità umana. Quando esseri umani, nello stato più debole e più indifeso della loro esistenza, sono selezionati, abbandonati, uccisi o utilizzati quale puro "materiale biologico", come negare che essi siano trattati non più come un "qualcuno", ma come un "qualcosa", mettendo così in questione il concetto stesso di dignità dell’uomo?


Certamente la Chiesa apprezza e incoraggia il progresso delle scienze biomediche che aprono prospettive terapeutiche finora sconosciute, mediante, ad esempio, l’uso delle cellule staminali somatiche oppure mediante le terapie volte alla restituzione della fertilità o alla cura delle malattie genetiche. Nel contempo essa sente il dovere di illuminare le coscienze di tutti, affinché il progresso scientifico sia veramente rispettoso di ogni essere umano, a cui va riconosciuta la dignità di persona, essendo creato ad immagine di Dio. Lo studio su tali tematiche, che ha impegnato in special modo la vostra Assise in questi giorni, contribuirà certamente a promuovere la formazione della coscienza di tanti nostri fratelli, secondo quanto afferma il dettato del Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Dignitatis Humanae: "I cristiani... nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana" (n. 14).


Nell’incoraggiarvi a proseguire nel vostro impegnativo ed importante lavoro, vi esprimo anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, ed imparto di cuore a tutti voi, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.



[00157-01.01] [Testo originale: Italiano]






(C) Vatican.va http://212.77.1.245/news_services/bulletin/news/

L'accusa del Cardinale Rodè: "Sacerdoti disobbedienti e mondani"

Mondani,restii ad indossare l'abito talare e a obbedire ai superiori, poco interessati alla preghiera e alla vita comunitaria: e' l'amaro identikit dei religiosi cattolici tracciato, in una conversazione con l'Ansa, dal Cardinale Franc Rode', Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita Consacrata.
'L'imborghesimento e il relativismo morale sono i due grandi pericoli che indeboliscono la vita religiosa'', sintetizza il porporato. ''Nonostante il calo delle vocazioni sia irrisorio, dello 0,7% nel 2006, oggi i problemi piu' grossi - spiega il cardinale - sono determinati dal clima di secolarizzazione che e' presente non solo in tutta la societa' occidentale ma anche all'interno della Chiesa stessa. Gli indicatori sono: una liberta' senza vincoli, un debole senso della famiglia, uno spirito mondano, una scarsa visibilita' dell'abito religioso, una svalutazione della preghiera, una insufficiente vita comunitaria e uno scarso senso dell'obbedienza'.

È una parte dell’articolo pubblicato oggi su Petrus, si tratta di un identikit chiaro e reale, che evidenzia lo stato del nostro clero.
Fortunatamente ci sono le eccezioni, i numerosi santi sacerdoti.
Mi sovviene il dialogo intercorso tra l’allora frate francescano Boff, fautore della teologia della liberazione, ed il nostro amato Papa.
In quell’ occasione il Pontefice per stemperare un po’ il clima lodò l’abito, la tunica del frate, il quale replico che rappresentava un’ espressione di potere e che ciò che conta per le persone è il cuore e non la tunica.
A tale banale affermazione il grande Pontefice replicava con un dato di fatto: il cuore non si vede, e le persone qualcosa devono pur vedere.
Nel nostro paesino, a Mazzarino, nessun sacerdote porta la talare, e nemmeno il clergyman , solo le suore salesiane, sol perché anziane e quindi appartenenti ad una certa scuola non hanno eliminato l’abito.
Tuttavia vi sono stati dei casi nel passato in cui tra piscine, mare e festini qualcuna ha banalizzato il sacro abito, giustificandosi con la strumentalizzazione di una frase di San Giovanni Bosco che desiderava salesiani e salesiane in “maniche di camicia”.
Tutti conoscono l’attaccamento del Santo alla Tradizione, all’abito, alla spiritualità dei suoi religiosi, quindi non è il caso di replicare con una risposta ovvia.
In un nostro volantino distribuito qualche tempo fa sottolineavamo e constatavamo che ”la figura ideale della Chiesa di oggi è il laico…il sacerdote e la persona votata particolarmente a Dio non sono più avvertiti come modelli di vita cristiana…forse la Chiesa di oggi sta pagando lo scotto di un qualche disinteresse per il sacerdozio ministeriale, mentre tende a sottolineare in modo unilaterale il sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio. (Mons. Maggiolini, Declino e Speranza del cattolicesimo.)
Come può il Sacerdote mondano d’oggi avvicinare e salvare anime?
Come può sottrarre l’uomo dalla finitezza della vita? Dalla corruttela del mondo, se egli stesso è corrotto col mondo? Se egli stesso si è conformato al mondo? Se egli stesso è divenuto un uomo tra gli uomini?
Preghiamo Nostro Signore Gesù Cristo affinché ci mandi Santi Sacerdoti, siamo stanchi di semplici presidenti d’assemblea, di opinionisti, di ballerini, psicologi, falsi benefattori che mirano soltanto all’aspetto fisico-materiale dimenticando: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi perde l’anima?
Comprendiamo la natura umana e la debolezza dei sacerdoti, ma vogliamo ribadire l’esclusività e la necessaria presenza del soprannaturale nell’Ufficio del sacerdote, cancellata dalla falsa lettura del Concilio Vaticano II, dalla c.d. ermeneutica della rottura che ha portato alla riforma liturgica del 1969.
Il Novus Ordo Missae è stata una riforma dagli effetti devastanti!!!
Non voglio addentrarmi ancora oltre, ci saranno altre occasioni, o forse non ce ne saranno perché ormai i tempi sono maturi, è venuto il tempo della “riforma della riforma”!!!

Concludo con una frase di San Giovanni Bosco per i sacerdoti:

“cercate anime, non denari, né onori, né dignità, guai a quel sacerdote che non lavori per salvare le anime, perirà dannato all’inferno con tutte le anime che non ha salvato”.


A.M.D.G.E.M.

mercoledì 13 febbraio 2008

Dalla Civiltà Cattolica chiarezza sul libro di Vito Mancuso


Dalla Civiltà Cattolica chiarezza sul libro di Vito Mancuso


Data:
10 Febbraio 2008
Autore:
Corrado Marucci S.I.


Un libro che è già alla sua settima edizione, con più di 80.000 copie vendute a partire da settembre. Un vero e proprio successo editoriale. Si tratta dell'ultima fatica del teologo V. Mancuso, "L'anima e il suo destino". Il testo si presenta come «discorso di teologia laica» sull'anima e sulle realtà ultime, ma partendo da premesse filosoficamente non corrette e trascurando i dati biblici, con un linguaggio spesso inopportuno, tende a demitizzare i dati tradizionali, accumulando non lievi errori teologici. Presentiamo la critica mossa a questo libro di Mancuso dal gesuita C. Marucci, professore di Esegesi biblica al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Da notare che il libro del teologo gode della prefazione di un altro gesuita, nientemeno che del card. Martini. Intanto anche l'arcivescovo di Chieti e presidente della commissione episcopale per la dottrina della fede, mons. Bruno Forte, con un articolo apparso sull'Osservatore Romano il 2 febbraio, ha definito come inconsistente la tesi dell'Autore. Non c'è male per un successo editoriale.
L'anima e il suo destino secondo Vito Mancuso
Nel suo ultimo libro Vito Mancuso (1), docente di Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele di Milano, espone quello che si può definire un moderno trattato di escatologia. In vari riferimenti sparsi nel corso dell'esposizione, egli concepisce il proprio lavoro come «costruzione di una "teologia laica", nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia». Questo «discorso» si sviluppa nel testo, dopo la prefazione del card. Martini, nella quale egli afferma, fra l'altro, «di sentire parecchie discordanze su diversi punti», e un capitolo introduttivo sulle coordinate speculative dell'Autore di circa 50 pagine, in nove capitoli che trattano dell'esistenza dell'anima, della sua origine e immortalità, della salvezza dell'anima, della morte e del giudizio, della terna paradiso/inferno/purgatorio e infine di parusia e giudizio universale. Chiudono una Conclusione e l'indice degli autori citati.
Data la mole degli argomenti trattati e lo stile enciclopedico scelto dall'Autore, è praticamente impossibile esporre sinteticamente e commentare le convinzioni, le conclusioni, le proposte, le tirate ironiche e gli stimoli disseminati nel testo (2). Ci limitiamo qui all'essenziale, col rischio di trascurare cose che possono essere sembrate essenziali all'Autore.
INTRODUZIONE
Nel lungo capitolo introduttivo egli espone uno dopo l'altro i cardini di ciò che intende sviluppare in seguito. In realtà si tratta di un insieme di convinzioni e princìpi in parte decisamente ovvi (quanto alla necessità di aderire alla verità, chi ha mai ammesso che si possa argomentare a partire da falsità o addirittura accettarle?), in parte bisognosi di molti distinguo (sembrerebbe che per l'Autore l'ultima istanza di ogni argomentazione sia l'accordo o almeno il non disaccordo con le scienze positive e ciò è ovviamente discutibile, poiché queste sono in un continuo processo autocorrettivo e spesso non prive di preconcetti e indebite estrapolazioni). Mancuso, seguendo una moda terminologica più del gergo politico e giornalistico che non filosofico, dichiara che il suo referente è la «coscienza laica», intendendo con ciò «la ricerca della verità in sé e per sé» (p. 9). Sarebbe difficile trovare qualche pensatore, dai presocratici a oggi, che abbia un differente concetto di verità: il problema è come si può arrivare alla certezza di aver raggiunto tale verità. Ma forse, come emerge da alcune allusioni, egli è convinto che chi aderisce alla fede cristiana lo faccia tacitando le difficoltà razionali o addirittura senza troppo pensare. L'Autore riassume poi diversi dati e acquisizioni scientifiche relative alla materia, alla sua equivalenza con l'energia, all'evoluzione, che egli ritiene necessario integrare con il concetto di relazione.
Diverse volte, in questo capitolo e anche nei seguenti, Mancuso dice di voler essere un pensatore cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli, in un'opera che sostanzialmente vorrebbe essere di teologia, tra le premesse argomentative non faccia alcun riferimento alla metodologia dell'esegesi biblica e a quella propria della teologia cattolica. Sulle conseguenze di questa mancanza torneremo in seguito. Le ultime pagine del primo capitolo possono qui essere tralasciate sia perché difficilmente riassumibili, sia perché le necessarie critiche saranno più evidenti nelle loro conseguenze sui singoli argomenti trattati in seguito.
L'«ANIMA SPIRITUALE»
Nei capitoli seguenti l'Autore espone le sue convinzioni sugli argomenti classici relativi all'anima e al suo destino finale. Innanzitutto, sempre attingendo ad autori del passato a partire dagli antichi egizi fino al recente Catechismo della Chiesa Cattolica, egli si dichiara apertis verbis per l'esistenza dell'anima spirituale nell'uomo arrivato a maturità (?). Va detto tuttavia che con il termine «anima spirituale» egli intende molte cose, ci pare, più legate a concetti come energia, relazione, libertà, creatività e così via, legati cioè più alla materia, o ai sensi o ancora conseguenze della presenza nell'uomo della dimensione spirituale. Molte osservazioni, derivanti dai più disparati settori della vita, sono condivisibili, altre oscure dal punto di vista concettuale. Quello che però stupisce è la completa assenza di argomenti veri e propri che dimostrino l'esistenza di quella realtà che in tutta la tradizione cristiana si è chiamata anima o spirito. Ovviamente ogni dimostrazione vale all'interno di un sistema logico predefinito; ma poiché, come si è detto, Mancuso non dichiara le sue coordinate logiche, non è possibile giudicarne le asserzioni. È ovvio che la pura assimilazione alle scienze fisico-chimiche contemporanee non potrà mai essere sufficiente allo scopo, poiché il loro oggetto formale sono i dati materiali sensibili e osservabili.
Nella sistemazione classica del cattolicesimo la dimostrazione dell'esistenza dell'anima spirituale era demandata alla filosofia, quale ancilla theologiae. Dall'ovvia esistenza nell'uomo dell'intellezione e del conseguente giudizio, che sono operazioni non materiali, ma spirituali, si deduceva la necessità di un principio immateriale nell'uomo, poiché la materia non è capace di operazioni non materiali. Il supporto logico-argomentativo era dato dall'ontologia aristotelico-tomista. Quanto invece alle argomentazioni di Mancuso, non è difficile immaginare che un lettore non digiuno di logica e di filosofia le trovi vaghe e poetiche (3).
Quanto poi al momento dell'infusione dell'anima razionale nel corpo, l'Autore, in buona sostanza, pare far sua la teoria delle formae vitales, che la filosofia scolastica aveva ereditato da Aristotele, come conseguenza dell'assioma che ogni forma ha bisogno di una materia adeguatamente preparata a riceverla. Tale teoria però, oltre che per difficoltà teoretiche, è stata abbandonata dalla Chiesa cattolica, perché le operazioni vitali, vegetative e sensibili, per sostenere le quali si invocava la presenza nel feto di un'anima soltanto vegetativa e in seguito soltanto sensibile, possono essere tranquillamente attribuite fin dall'inizio all'(unica) anima razionale, come si fa in seguito nell'esistenza umana matura.
A nostro parere l'applicazione dell'assioma sopra ricordato non conduce ad alcuna conclusione sicura, poiché la sproporzione ontologica dell'anima spirituale è totale nei confronti di qualsiasi tipo di materia; non è questione cioè di gradi. Su questo tema stupisce infine il silenzio di Mancuso in merito a tutta quella serie ormai ricchissima di studi sulla fisiologia del cervello per appurare se vi siano operazioni umane non spiegabili con le sole proprietà neurologiche (4). Notiamo infine che diverse volte (5) nel corso dell'esposizione Mancuso attribuisce alla dottrina ecclesiale l'idea che per essa l'anima sia una sostanza, cosa assolutamente erronea: il famoso asserto per cui l'anima è forma (substantialis) corporis significa che essa non è una sostanza bensì un principium entis; la sostanza è la persona umana (6).
L'ORIGINE DELL'ANIMA
Il testo poi presenta tutto un capitolo (30 pagine) sul problema dell'origine dell'anima. Nonostante il tentativo di distanziarsi anche in questo punto dalle concezioni tradizionali (di cui egli cita tutta una serie), Mancuso in buona sostanza concorda con la dottrina ecclesiale praticamente in tutto, fatta eccezione per l'affermazione che l'anima umana viene creata direttamente da Dio. In proposito va ricordato che tale dottrina non è mai stata definita come dogma di fede; i manuali le danno la qualifica di theologice certa. L'Autore lo ammette, benché non spieghi esattamente il significato di questa nota theologica (7). La conseguenza di questo fatto è che la dottrina contraria (in questo caso che i genitori trasmettono l'anima al concepito) è accettabile laddove si riesca a dimostrare che le argomentazioni razionali che conducono alla necessità del suo contrario non tengono.
Orbene non ci pare che questo riesca all'Autore, ma che anzi quelle classiche siano ancora valide (8), aggiungendo comunque che l'asserto per cui le anime sono create direttamente da Dio ha anche la funzione di sottolineare che ciò che nasce (con una fenomenologia molto varia e addirittura a volte casuale) in realtà è sempre qualcosa di per sé direttamente voluto da Dio, destinato a dialogare con lui e che quindi non rappresenta mai un progetto solamente storico o fattuale, ma eterno. Mancuso sfrutta qui una sua ricorrente convinzione che lo spirito, in quanto energia, possa derivare dalla materia e contesta l'opposizione classica tra spirito e materia, per cui l'una è il contrario dell'altra. Non è il caso di ribadire questa concezione che, una volta capiti i termini, è ovvia; il problema è che qui, e per tutto il libro, l'Autore opera con un concetto di spirito che non è quello di cui parla tutta la tradizione cristiana. Affermare infatti che esso è energia e appellarsi alla fisica einsteiniana è un'idea perlomeno bizzarra (9). Come può una realtà estesa, misurabile e presente anche nelle cose e negli animali, essere spirituale?
D'altronde Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione al pensiero evolutivo e a Teilhard de Chardin. Citando poi come esempio il noto manuale di Flick e Alszeghy, egli sostiene che nell'argomentazione tradizionale ci sarebbe un circolo vizioso; ma perlomeno nell'edizione finale di tale manual(10) tutto ciò è affatto assente: l'immortalità dell'anima è detta naturale fin dall'inizio, anche se ovviamente voluta da Dio e quindi, dicono i due dogmatici, può essere creata soltanto da Dio. Foriera di gravi conseguenze etiche è l'affermazione che «non c'è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l'anima razionale-spirituale» (p. 107): è chiaro che Mancuso confonde la facoltà con il suo esercizi (11).
IMMORTALITÀ E SALVEZZA DELL'ANIMA
Il quarto capitolo, di 40 pagine, è dedicato all'immortalità dell'anima. Affastellando citazioni e bons mots (a volte poco pertinenti) di pensatori e scienziati dell'antichità, del Medioevo e moderni, Mancuso arriva alla conclusione che per l'immortalità dell'anima non esistono prove (p. 123 e passim). Senza analizzare i motivi del dogma, egli si sofferma sull'esistenza o meno di un Dio personale e su problemi derivanti dalla domanda spontanea di perennità innata nell'uomo. La definizione, ribadita in tutto il corso del testo, dell'anima come energia impedisce di capire il senso delle dimostrazioni classiche e delle numerose conferme bibliche concernenti l'immortalità dello spirito umano. Non è qui il caso di contestare singole affermazioni del testo, che procede veramente a ruota libera (12).
L'Autore ritiene necessario dedicare poi il quinto capitolo, di 37 pagine, al tema della salvezza dell'anima. Innanzitutto dichiara che tutti i contenuti veicolati dal dogma del peccato originale (13) devono essere riformulati o abbandonati; concretamente Mancuso ritiene corretto parlare soltanto di «peccato del mondo». Prescindendo praticamente dalla teologia paolina, ma ricorrendo a Platone, Anassimandro e Bonhoeffer egli ritiene di dover «rifondare» fede e tradizioni (p. 168). Cercando allora di rispondere alla domanda se dobbiamo ancora essere salvati e se sì, da cosa e come, l'Autore spiega «da noi stessi e dalla vita disordinata (nel senso di sottoposta all'entropia)» (p. 173). Quanto al come, egli proclama che «non è la religione che salva: [...] non sono i sacramenti, la Messa, i rosari, i pellegrinaggi, le indulgenze, la Bibbia» (p. 176), e oltre «non c'è alcuna esigenza di credere nella sua [cioè di Gesù] resurrezione dai morti per essere salvi» (p. 183). È ovvio che siamo agli antipodi di ciò che Paolo afferma in 1 Cor 15 e in molti altri passi.
Il sesto capitolo, di 18 pagine, è dedicato a «Morte e giudizio». Anche qui Mancuso, sulla base di rudimentali richiami biblici (tra i quali manca il testo principale Gn 2,17; 3,19) definisce i dati tradizionali come contraddittori (cfr p. 189); quanto alla valenza della morte egli, in buona sostanza, va catalogato tra coloro che negano la reale problematicità della morte degli umani (14), posizione difforme dalla dogmatica cattolica. Sul criterio del giudizio dopo la morte, Mancuso invece di ricordare la classica formula paolina della fides caritate formata preferisce appoggiarsi a Platone, Marc'Aurelio, Pascal, Kant e Simone Weil.
I quattro capitoli seguenti, più sintetici dei precedenti, riguardano paradiso, inferno, purgatorio, e parusia e giudizio universale. Anche per il paradiso, la visione beatifica e la risurrezione dei corpi l'Autore compie una completa «demitizzazione», sempre argomentando da alcuni suoi assiomi non ulteriormente discussi quali l'identità tra spirito e materia, la concezione dell'anima come energia e l'eterna validità delle leggi fisiche. Egli stabilisce perciò che la distinzione tra immortalità dell'anima e risurrezione dei corpi è «del tutto infondata» (p. 223), che la concezione per cui le anime dei defunti vivono «un letargo simile alla morte» sarebbe «oggi maggioritaria tra i teologi e ancor più tra i biblisti» (p. 214) (15) e che «la convinzione che nessun intelletto creato può vedere l'essenza di Dio [è] la peggiore delle eresie» (p. 219), che «la credenza della risurrezione della carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica» (p. 225) e così via. Non è qui possibile commentare questa congerie di affermazioni anche perché le argomentazioni ora sono oscure, ora soltanto accennate sulla base di citazioni, di convinzioni e frasi di pensatori di ogni epoca. Ci limitiamo a segnalare che, in contesto escatologico, il termine «eternità» ha due significati assai diversi, soltanto analogici: se si parla di quella di Dio, essa implica l'assenza di ogni successione e di ogni distinzione tra essenza e operazioni (16), mentre per gli altri esseri spirituali il termine implica la perennità de iure, non solo de facto, ma non esclude la successione temporale e questo risolve alcune antinomie che Mancuso crede di rintracciare nella dogmatica cattolica (17). Nonostante il profluvio di autori citati, pare che Mancuso non conosca la letteratura collegata al concetto di «risurrezione nella morte», che è la più recente querelle di carattere escatologico in campo cattolico (18).
Venendo poi a parlare dell'inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (ben 35 pagine) alla confutazione del dogma dell'eternità dello stesso. Anche qui, saltando da Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria affermazione per cui «parlare di eternità dell'Inferno è una contraddizione assoluta» (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi: dopo aver a lungo esposto il pensiero di P. Florenskij, egli resta, per così dire, anceps, dopo aver fatto un peana dell'antinomia annunciata. Il lettore noterà la mancanza di analisi delle numerose affermazioni del Nuovo Testamento, con l'introduzione di errori teologici anche non lievi (19). Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell'apocatastasi, oltre che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all'appello di Dio.
Dopo aver definito il purgatorio «una salutare invenzione», Mancuso afferma che l'unica modalità che gli appare «razionalmente legittima» è di concentrarlo nell'istante della morte (p. 279). La parusia infine è da lui definita come maggiormente bisognosa di essere ripensata (cfr p. 289). In definitiva il testo sostiene che non ci sarà alcun ritorno del Gesù glorioso; le frasi corrispondenti del Nuovo Testamento sono errori di Gesù e di Paolo. Per Mancuso è semplice anche spiegare perché «Dio non è mai intervenuto direttamente nella storia» e perché «non tutta la bibbia è parola di Dio»!
CONCLUSIONE
Se per teologia si intende la riflessione dell'intelletto umano illuminato dalla fede sulla Sacra Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il nostro giudizio complessivo su questa opera non può che essere negativo. L'assenza quasi totale di una teologia biblica (20) e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all'assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l'Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale (21).
In realtà non è facile neanche elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso dell'esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche. Nel contesto di notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica contemporanea, questo testo ci sembra che contribuisca ad aumentare tale confusione. L'Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò, dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è facile, poiché si può confutare soltanto ciò che è organicamente formulato al di dentro di un preciso assetto epistemologico.
NOTE
(1) Cfr V. Mancuso, "L'anima e il suo destino", Milano, Cortina, 2007, XVI-323, € 19,80. Le pagine indicate nel testo si riferiscono a questo volume.
(2) È spiacevole che in un'opera teologica ci siano titoli come «il deposito di zio Paperone» (p. 37) e «Vino e tortellini» (p. 40). Ancora a p. 73 il matrimonio è detto «legame chimico totale della libertà». Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.
(3) Alquanto sorprendente invece è la convinzione dell'Autore secondo la quale le attività più chiaramente spirituali dell'uomo sono «scienza, arte, musica, pensiero» (p. 64). Anche in seguito si sostiene che la musica è la massima espressione spirituale dell'uomo.
(4) Su questo settore di ricerca cfr, tra i molti, H. Goller, "Hirnforschung und Menschenbild", in Stimmen der Zeit 218 (2000) 579-594 (con abbondante bibliografia) e H. Schöndorf, "Gehirn-Bewußtsein-Geist", in Herder-Korrespondenz 53 (1999) 264-267.
(5) Cfr, ad esempio, pp. 53, 77, 93, 97.
(6) Ricordiamo en passant che anche per la cosiddetta anima separata san Tommaso precisa che essa non è persona umana (cfr Summa Th. 1, 29, 1 ad 5m; Pot 9, 2 ad 14m; Summa contra Gentiles 4, 79).
(7) Tale qualifica significa che un asserto è necessariamente connesso mediante operazioni logiche a un dogma di fede, non, come spiega Mancuso, «che i pronunciamenti del Magistero sono stati tali da rendere tale dottrina patrimonio sicuro della fede cattolica» (p. 85).
(8) Senza stare qui a ripeterle rimandiamo all'esposizione di M. Flick - Z. Alszeghy, "Il Creatore, l'inizio della salvezza", Firenze, Lef, 19612, 251 s.
(9) Con la solita mescolanza dei generi letterari egli afferma che «per avere una reale esperienza spirituale [...] non è necessario [...] andare in Chiesa, isolarsi in un monastero» (p. 87).
(10) Cfr M. Flick - Z. Alszeghy, "Il Creatore...", cit., 183 ss; lo stesso vale per J. Donat, "Psychologia", Oeniponte, 19327, 409 ss.
(11) Più o meno le stesse cose vengono ripetute dall'Autore oltre, alle pp. 136 ss.
(12) Ci limitiamo a notare che non è vero che con le note prove tomistiche dell'esistenza di Dio si approda sempre a un essere impersonale, poiché almeno la quinta prova termina a un essere intelligente, che non può essere che personale. Il termine riferito a Dio di universitatis principium, che secondo Mancuso a motivo del neutro proverebbe che si tratta di qualcosa di impersonale (p. 129), non viene usato da Tommaso nel contesto delle cinque prove, ma una volta sola in Summa contra Gentiles 1, 1, 3.
(13) Quanto al rapporto tra peccato dei progenitori e peccato originale originato, notiamo che Mancuso pare ignorare il noto saggio di K. Rahner "Theologisches zum Monogenismus", in Schriften zur Theologie 1 (Einsiedeln, 19604) 253-322. Più avanti (p. 287), con la solita eccedenza verbale, egli stabilirà che «il peccato originale [è] un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all'Occidente»!
(15) Anche su questo tema avrebbe apportato chiarezza la conoscenza dell'ottimo saggio di K. Rahner, "Zur Theologie des Todes" (QD 2), Freiburg i.Br., 19613.
(15) Non si citano nomi concreti, ma l'affermazione, per quanto concerne teologi e biblisti cattolici, è completamente erronea (vedi anche i testi da noi citati sotto in nota 18). In realtà fu Lutero a parlare per primo di un Seelenschlaf.
(16) Il che è perfettamente espresso nella nota definizione di Boezio: interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio. L'erronea concezione che Mancuso ha dell'eternità dello spirito creato ritorna spesso (cfr soprattutto p. 313).
(18) Cfr la Quaestio disputata "Auferstehung im Tode" di G. Greshake - G. Lohfink (Freiburg, 19825) con la nostra critica in G. Lorizio (ed.), "Morte e sopravvivenza", Roma, Ave, 1995, 289-316.
(18) Il più grave è quello di attribuire a Tommaso l'affermazione che in Summa Gent. III, 163 Dio «spinge [...] ad agire effettivamente male. No comment» (p. 254 s). Il commento è invece necessario: Tommaso continua nel testo con le parole «reprobatio includit voluntatem permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa».
(19) Segnaliamo in nota che la traduzione del p. Centi di assimilamur con «somiglianza» in Summa contra Gentiles III, 51 (p. 218) è corretta (l'italiano «assimilare» è frutto di evoluzione semantica); la frase citata (a p. 207) dal Kleines Theologisches Wörterbuch, di Rahner e Vorgrimler (che non è proprio il massimo che si possa citare in tema di escatologia) alla voce "Himmel", per cui il cielo non sarebbe un luogo, è avulsa dal contesto, per cui, rileggendo tutta la voce, viene corretta nel senso tradizionale.
(20) Basta ricordare la seguente sentenza: «Il biblicismo è una pericolosa malattia, è la paralisi dello spirito» (p. 279). Già prima Mancuso aveva informato il lettore che, tra i 73 libri biblici, «ve ne sono di banali [...]; alcuni sono capolavori assoluti, mentre altri presentano pagine persino dannose al progresso spirituale delle anime verso la via del bene e della giustizia» (p. 104 s).
(21) Questa è ben formalizzata e più solida di quanto forse l'Autore si immagina: si veda anche soltanto il chiarissimo piccolo capolavoro del Bochenski, uno dei maggiori storici della logica del Novecento, dal titolo "The Logic of Religion" (New York, 1965) e il "Method in Theology" di B. Lonergan.

Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 I 256-264 quaderno 3783, 2 febbraio 2008

Il movimento neocatecumenale disubbidisce ancora al Papa!

Siamo quasi alla fine di Febbraio ed ancora il movimento neocatecumenale non si è adeguato alle decisione del Santo Padre sulla corretta celebrazione della Santa Messa.
C'era da aspettarselo, i cari fratelli eletti - così si autodefiniscono - non possono accettare correzioni! altrimenti che fratelli eletti sarebbero?!
A dir la verità questa loro "genuinità", questa loro preferenza agli occhi di Nostro Signore Gesù Cristo, dovrebbe trovare rappresentazione in una pronta ed umile sottomissione al Romano Pontefice, Capo della Chiesa universale.
Ciò che mi scandalizza maggiormente è la falsa informazione, la menzogna.
Basta chiedere ad una qualsiasi persona che frequenta il cammino neocatecumenale per apprendere che la storia del cambiamento della Santa Messa, della correzione è tutta una "balla", anzi sono gli stessi sacerdoti appartenti al cammino, che dicono delle menzogne!!!
Questo è quello che capita a Mazzarino, una vergognosa mistificazione, una scandalosa disubbidienza nei confronti del Sommo Pontefice.
Invito chiunque a leggere la lettera della Sacra Congregazione e sfido chiunque a dimostrare il contrario!
Sono sorpreso del silenzio della Curia, c'è qualcosa che non va, di sicuro il caro amato Papa Benedetto XVI sarà oggetto di pressioni tremende, ma confido nella vittoria della Verità...portae inferi non prevalebunt.
Invito tutti i lettori ad unirsi a noi nella preghiera in sostegno del Romano Pontefice.
A.M.D.G.E.M.

martedì 12 febbraio 2008

lotta alla mafia

L'associazione Extra Ecclesiam Nulla Salus esprime solidarietà al Vescovo della diocesi armerina mons. Michele Pennisi in seguito agli oltraggiosi volantini nei suoi confronti.

S.E. rev.ma ha mostrato da sempre una sensibilità particolare per le problematiche sociali.

Il nostro caro Vescovo è intervenuto ad una nostra conferenza sulla dottrina sociale della Chiesa, consegnando alla città di Mazzarino il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, necessario per costruire la "civiltà dell'amore".

Nel suo intervento mons. Pennisi ha sottolineato il ruolo fondamentale della Santa Madre Chiesa nel guidare e nell'illuminare l'uomo sia nel suo intimo che in ambito sociale.

Non sono una novità gli innumerevoli discorsi contro la mafia e tutto il malaffare in generale, abbiamo un vescovo in prima linea, che non si tira mai indietro.

Per quanto riguarda il caso di specie si è semplicemente attenuto alle alle disposizioni dell'autorita' competente, senza aver fatto mancare la necessaria assistenza spirituale ai familiari con la celebrazione del rito nella cappella del cimitero.

Eccellenza continui così, noi siamo con Voi!!!
A.M.D.G.E.M.