martedì 30 dicembre 2008

"...Non si voltano le spalle ai fedeli, bensì celebrante e fedeli sono rivolti verso l'unico punto che conta che è il crocifisso".

Intervista a mons. Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie.

Monsignor Guido Marini, chi sono stati i suoi maestri?
«Quando sono entrato in seminario era arcivescovo il cardinale Giuseppe Siri. Sono stato ordinato sacerdote dal cardinale Canestri. Sette anni come segretario di Canestri e sette col cardinale Dionigi Tettamanzi. Il cardinale Tarcisio Bertone mi ha nominato responsabile dell'ufficio scuola dell'arcidiocesi, direttore spirituale in seminario dove insegnavo diritto canonico. Poi cancelliere della curia e prefetto responsabile della cattedrale. Col cardinale Tettamanzi ho iniziato i primi passi come cerimoniere».

«Liturgia culmine della vita della Chiesa, tempo e luogo di rapporto profondo con Dio», come dice Benedetto XVI. Da dove le è venuto questo amore per la liturgia?
«È stato un amore giovanile nel senso che la mia vocazione ha le sue radici nella liturgia; l'amore per il Signore è stato anche l'amore per la liturgia come luogo d'incontro col Signore. A Genova poi c'è sempre stato un importante movimento liturgico».

Suppongo che sia stato il cardinale Tarcisio Bertone, divenuto Segretario di Stato della Santa Sede a proporre il suo nome a Benedetto XVI.
«Sì, la proposta mi è arrivata tramite il cardinale Bertone. "Il Papa - mi ha spiegato - sta pensando al tuo nome"».

Col Papa bavarese, stiamo assistendo ad una operazione di restyling liturgico o a qualcosa di più profondo?
«È qualcosa di più profondo nella linea della continuità, non della rottura. C'è uno sviluppo nel rispetto della tradizione».

Da quando è arrivato lei i cambiamenti o le correzioni ci sono stati. Alcuni impercettibili, altri più vistosi.
«Il cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al centro dell'altare per indicare che il celebrante e l'assemblea dei fedeli non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della loro preghiera. L'altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche l'atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l'adorazione e la devozione dei fedeli».

Papa Benedetto è il primo Papa che non ha nel suo stemma la tiara. Ha cambiato il pallio del suo inizio di ministero apostolico ed ha abbandonato il caratteristico pastorale, dell'artista Scorzelli, donato dai milanesi a Paolo VI. Quel pastorale a forma di croce fu usato anche da Papa Luciani e da Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger ha scelto una ferula. Una semplice croce.
«Come dice lei, il pastorale papale è la ferula, la croce senza il crocifisso, dando a questa un uso più consueto e abituale e non soltanto straordinario. Accanto a tale considerazione si è imposta una questione pratica: un pastorale più leggero e lo abbiamo trovato nella sacrestia papale».

Abbiamo già accennato all'introduzione del silenzio nella messa. A Roma, al centro della cristianità, le liturgie appaiono nella loro splendida solennità. E la lingua di Cicerone, il latino, svetta su tutte. Poi si pensa ad anticipare il segno della pace e ad un saluto finale diverso da parte del celebrante. L'intenzione è quella di recuperare in pieno il carattere non arbitrario del culto. La creatività e spontaneità come una minaccia.
«Non sarei così drastico e non mi piace neppure l'espressione, usata da qualcuno, di "bonifica liturgica". È uno sviluppo che valorizza ulteriormente ciò che ha fatto egregiamente e per tanti anni, come maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, il mio predecessore, il vescovo Piero Marini. Le questioni da lei sollevate circa lo spostamento del segno della pace o altro non competono al mio ufficio bensì alla Congregazione per il Culto Divino e al nuovo prefetto, il cardinale Antonio Canizares. Io ho il compito di impegnarmi a realizzare in modo esemplare l'unità e la cattolicità di tutti coloro che partecipano alla celebrazione della Santa Messa papale».

Quando vedremo Papa Benedetto celebrare la messa in latino secondo il rito romano straordinario, quello di san Pio V? Il «motu proprio» io, personalmente, l'ho interpretato come un atto di liberalità, di apertura, non di chiusura.
«Non lo so. Molti fedeli si sono avvalsi di questa possibilità. Deciderà il Papa, se lo crederà opportuno»

Nella «Esortazione Apostolica» post-sinodale sulla liturgia, Joseph Ratzinger si è soffermato su tanti aspetti. Ha persino proposto che le chiese siano rivolte verso oriente, verso la città Santa di Gerusalemme. Lui, un anno fa, ha celebrato messa nella Cappella Sistina con le spalle rivolte al popolo. Chi glielo ha proposto?
«Gliel'ho proposto io. La Cappella Sistina è uno scrigno di tesori. Sembrava una forzatura alterarne la bellezza costruendo un palco artificiale, posticcio. Nel rito ordinario, questo celebrare "con le spalle rivolte al popolo", è una modalità prevista. Però sottolineo: non si voltano le spalle ai fedeli, bensì celebrante e fedeli sono rivolti verso l'unico punto che conta che è il crocifisso».

«Il Papa veste Cristo non Prada» si è letto addirittura su «L'Osservatore Romano». Il look di Benedetto XVI colpisce e intriga. Paramenti, mitre, croci pettorali, cattedre su cui siede, mozzette e stole. Siamo di fronte ad un Papa elegante. È una invenzione giornalistica?
«Già dire "elegante", nel linguaggio di oggi, sembrerebbe significare un Papa che ama aspetti esteriori, mondani. Un occhio attento avverte che c'è una ricerca che sposa tradizione e modernità. Non è la logica di un improponibile ritorno al passato ma è un riequilibrio fra passato e presente. È la ricerca, se vuole, della bellezza e dell'armonia, che sono rivelazione del mistero di Dio».

Cosa vedremo in Camerun e in Angola? Le liturgie africane sono pittoresche, popolari, dove c'è una totalità che si esprime anche con la danza, i tamburi. Lei sarà messo alla prova…
(Ride). «Solo adesso stiamo preparando il viaggio. Cercheremo di mettere insieme ciò che vale per tutti con le tradizioni locali. Con la sua sola presenza il Papa richiama la Chiesa, una, santa, cattolica. Troveremo la sintesi fra ciò che unisce la Chiesa sul rito romano e aspetti tipici, sensibilità culturali. Inculturazione della fede e della liturgia e dimensione universale».

La liturgia è un sedimentato, un patrimonio millenario. Il messale è intessuto di citazioni dalla Bibbia ai Padri della Chiesa dell'Oriente e dell'Occidente. Salmi responsoriali, orazioni o collette, il sacramentario che è la parte centrale della messa. È un patrimonio intoccabile. Ogni volta che c'è una celebrazione lei si consulta col Papa? Che tipo di comunicazione c'è?
«Molto semplice. Il Papa viene interpellato nelle cose rilevanti e prima di una celebrazione ha tutti i testi. Di solito, gli inviamo delle note scritte e lui risponde per iscritto, di suo pugno»
.
Lei sta facendo un'esperienza forte e straordinaria. Episodi che l'hanno toccata?
"Sì, è una esperienza forte. Mi ha colpito il viaggio del Papa negli Stati Uniti. Essendo il mio primo viaggio internazionale col Santo Padre c'era il sapore della novità. Un viaggio emozionante per l'affetto e il calore, per il clima spirituale. E mi ha colpito la consegna del pallio, in giugno, ai metropoliti. Un metropolita si è rivolto così al Papa in ginocchio: "Padre Santo, vengo da una diocesi in cui il mio predecessore ha patito il martirio per la fede. Preghi per me perché anch'io possa essere un martire". Ho capito ancora di più cosa significa essere Chiesa».

C'è grande sintonia, feeling fra lei e il Papa?
«Da parte mia è assoluta».

Come definirebbe Papa Benedetto XVI, lei che ha fortuna di stargli accanto?
«Unisce ad una eccezionale levatura intellettuale una grandissima semplicità e dolcezza. È un tratto caratteristico della sua figura spirituale e umana. È una realtà che verifico e tocco con mano. Il fatto di essere vicino al Papa, a questo Papa, è una grande grazia per il mio sacerdozio».

Fonte Il Tempo, 29 Dicembre 2008.

mercoledì 26 novembre 2008

Per Monsignor Amato il dialogo interreligioso è possibile solo con "competenza e discernimento"

www.papanews.it


CITTA’ DEL VATICANO - Il dialogo interreligioso "non si improvvisa", richiede "competenza e spirito di discernimento", rifugge da "atteggiamenti ingenui" e soprattutto non esime chi lo pratica di annunciare la propria fede. Lo ha affermato l'Arcivescovo Angelo Amato, primo collaboratore di Joseph Ratzinger alla Congregazione della Dottrina della Fede e oggi prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, intervenuto al Convegno Cei su questo tema. L'incontro arriva all'indomani della pubblicazione di una lettera del Papa al senatore Marcello Pera a commento di un libro dell'uomo politico, che e' stata interpretata come una presa di distanza del Pontefice dal dialogo interreligioso. Mons. Amato ha spiegato invece che per il Papa e' possibile "il dialogo della carita' e della verità”. "Il dialogo della carita' - ha detto - e' fatto di accoglienza, di ascolto e stima reciproca". "Spiana la via al dialogo della verita' e - ha aggiunto - sono convinto che le visite, l'amicizia, lo scambio dei doni riescono a diradare la densa nebbia dei pregiudizi storici e psicologici" di cui sembra soffrire oggi il dialogo tra le Chiese cristiane. "Il dialogo della verita' - ha poi precisato Monsignor Amato - non si improvvisa, richiede competenza, spirito di comprensione e riguarda contenuti teologici non negoziabili". "I due dialoghi corrono su binari diversi, ma alla fine convergenti e procedono a due velocita'. Il dialogo della carita' e' certamente piu' veloce ma il dialogo della verita' corre piu' sicuro e con frutti certi perche' fa luce sul molto che ci unisce e chiarisce cio' che ancora ci divide".Nel dialogo ecumenico, ha ricordato il presule salesiano, le Chiese hanno ''una piattaforma comune e condivisa'' che ovviamente non puo' esserci nel dialogo interreligioso. ''Pertanto - ha detto Monsignor Amato - diverse sono le finalita' dei due dialoghi: scopo del dialogo ecumenico e' il raggiungimento dell'unita' dei cristiani nell'unica Chiesa di Criston finalita' invece del dialogo interreligioso non e', come alcune correnti teosofiche lasciano intendere, la creazione di una religione universale, sincretistica, che riconosce un minimo comune denominatore presente in tutte le religioni''. Ed e' da questo rischio che Benedetto XVI intende metterci in guardia. Mentre resta ''sconfinato l'orizzonte in cui si puo' concretamente attuare il dialogo interreligioso: dall'azione per il raggiungimento della pace nel mondo, alla tutela della liberta' religiosa, alla protezione della vita soprattutto se indifesa''. Nel dialogo con le altre fedi occorre portare la propria identita' religiosa ed e' questo che il Papa ci chiede con i suoi richiami. ''Non si puo' - ha spiegato in proposito il suo ex vice alla Dottrina d'ella Fede - fare tabula rasa della propria identita' cristiana. Molti teologi, per esempio, per arrivare ad un Dio comune a tutti, mettono tra parentesi la figura chiave del cristianesimo che e' Gesu'. Ma - ha avvertito Amato - per entrare nel territorio altrui, il miglior atteggiamento e' mostrare la propria carta di identità''. Ed appare ben chiaro, ha concluso, nei documenti della Santa Sede anche recenti, che ''il dialogo non elimina l'evangelizzazione e l'annuncio della propria fede nonche' la chiamata alla conversione e al battesimo''.

Era ora!!!FINALMEN TE! Secondo Benedetto XVI "Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi"

tratto da CORRIERE DELLA SERA.it

Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.

Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.

Benedetto XVI

venerdì 21 novembre 2008

Ebrei insaziabili su Pio XII. Doveva farsi circoncidere? La smettano di mettere il naso in casa nostra e si convertano


di Bruno Volpe
tratto da PONTIFEX.ROMA.IT

"Io non so che cosa vogliano ancora gli ebrei da Pio XII e dal rito di San Pio V. Forse pretendono che Pio XII dovesse essere circonciso…”,la battuta ,fulminante, è di don Luigi Moncalero, Priore del Priorato San Carlo della Fraternità San Pio X. Padre, ultimamente i giudei sono tornati alla carica sul presunto antisemitismo del rito antico,lei che ne dice: “ la smettano di mettere il naso nelle nostre cose. Non ho visto nessun cattolico dire a loro come devono pregare. Sono insaziabili, la verità è che i cattolici non hanno nulla da farsi perdonare dai giudei,semmai è il contrario,ma anni di buonismo hanno portato a questo, per esempio le visite alle sinagoghe”. Insomma il rito di San Pio V non ha niente di antisemita: “ la Chiesa cattolica non è razzista,dunque non è antisemita. Però è storicamente giusto affermare che gli ebrei si resero responsabili della morte di Cristo e che dunque devono convertirsi.

Ma pregare per la loro conversione non mi sembra antisemitismo” .

Spiega: “ non siamo contro il giudeo in quanto persona,ma condanniamo il giudaismo come religione e dottrina, che è fuorviante,ostile al cattolicesimo e pericoloso. Insomma,ognuno a casa propria”.

Ma a che si deve questo rialzare la testa da parte degli ebrei? : “ un poco fa parte del loro costume. Poi anni di buonismo li ha rafforzati. A forza di abbassare la guardia, di cercare il dialogo con chi in realtà non lo vuole, si è arrivati a tanto. Ed ecco si spiega così la speciosa quanto assurda polemica su Papa Pio XII. Storicamente è provato che Papa Pacelli salvò molti ebrei,ma loro vogliono la damnatio memoriae. Io mi chiedo che altro dovesse fare quel Santo Papa? Farsi circoncidere?”.

Passiamo alla liturgia. Dopo il sacrosanto Motu Proprio del Papa Benedetto XVI che ha liberalizzato la messa antica,molti ne hanno apprezzato le bellezza. Per quale ragione?: “ perché è la messa di sempre, del Dio che allieta la mia gioventù. Purtroppo la riforma del Vaticano II ha buttato alle ortiche, malamente, un tesoro del nostro tempo e della tradizione. E’ stata messa da parte in modo assurdo,indegno ed oggi la gente se ne sta rendendo conto e la apprezza,ma..”. Aggiunge: “ dico ai miei amici tradizionalisti in comunione con Roma: il vero nodo non è liturgico,ma dottrinale”.

In che senso? : “ io apprezzo i loro sforzi,ma celebrare con il rito antico senza restaurare la sana dottrina della Chiesa non ha senso. Insomma, si corre il rischio, certo, di far diventare la messa antica un pezzo da museo, da anticaglia”. Insomma,il vero problema è teologico: “ certo. La liturgia obbedisce ed è figlia della dottrina. Il Concilio Vaticano II e successivamente anche alcune valutazioni furibonde, ha portato disordine nella dottrina della Chiesa. Io contesto,per esempio il principio dell’ecumenismo”.

Per quale ragione?: “ se gli altri si convertono al cattolicesimo,benvenuti. Ma la Chiesa di Cristo è la cattolica. Dunque non vedo perché scodinzolare dietro pagani e protestanti cercando compromessi. Oggi assistiamo,sia nella liturgia che nella dottrina, ad una protestantizzazione. Errore. Lo ripeto, se i protestanti vengono da noi convertendosi,saranno accolti a braccia aperte. Ma cercare di recuperarli ad ogni costo,ha portato ad errori e abusi pericolosi e al modernismo”

Veniamo infine ai fratelli ebrei,che dice loro?:” di lasciare in pace le nostre preghiere. Noi no mettiamo il naso in casa loro. E siano rispettosi con Pio XII, ma paghiamo purtroppo anni di buonismo nei loro confronti che sanno capire quando l’avversario è debole. Si convertano”.

© 2008 Pontifex

Udienza Generale, Benedetto XVI sconfessa Lutero prendendo spunto dall’esempio di San Paolo: “Non basta la fede, per salvarci occorrono anche carità e

www.papanews.it

CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI ha citato Martin Lutero durante la tradizionale catechesi dell’Udienza Generale del Mercoledi’, sconfessando la sua affermazione per la quale "ci si salva solo per fede". Il Papa, infatti, ha chiarito che questo "e' vero", ma, ha ammonito, "se non si oppone la fede alla carita' e all'amore". Solo "trasformati dall'amore di Cristo per Dio e per il prossimo possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio", ha proseguito il Pontefice, perche' "la Legge trova il suo adempimento nel comandamento dell'amore". Le parole di Benedetto XVI hanno preso spunto dalla cosiddetta dottrina della giustificazione ed hanno riguardato, in larga parte, l’esempio di San Paolo. "Quando Paolo incontro' il Risorto sulla strada di Damasco - ha ricordato il Papa - era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge", ma dopo quell'incontro "comincio' a considerare tutti i suoi meriti" come "spazzatura di fronte alla sublimita' della conoscenza di Gesu' Cristo" e passo' "da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo". Per il Pontefice, "il rapporto tra Paolo e il Risorto divento' talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo" era "il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno". Proprio per questo, ha evidenziato il Santo Padre, "Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un'irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l'altro fondato sulla grazia della fede in Cristo". E Paolo sceglie il secondo, per il quale "l'uomo e' giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge". Ma "la liberta' cristiana non e' libertinismo, e la liberazione della quale parla San Paolo non e' liberazione dal fare il bene", ha sottolineato ancora il Papa. "La Legge dalla quale siamo liberati e che non salva", ha tenuto a precisare Benedetto XVI, e' rappresentata dalla Torah in tutti i suoi cinque libri, che nell'interpretazione farisaica implica un complesso di comportamenti e "osservanze rituali e cultuali che determinano sostanzialmente l'identita' dell'uomo giusto", esprimendo "un'identita' sociale, culturale e religiosa". "Le opere della Legge che non giustificano" sono le sue prescrizioni "rituali e culturali che determinano l'identita' dell'uomo giusto: circoncisione, cibo, purezza rituale, sabato, comportamenti che appaiono anche in dibattiti tra Gesu' e i contemporanei". Si tratta di una serie di prescrizioni che con Cristo "non sono piu' necessarie. Lui basta". Le pratiche mosaiche, ha sottolineato il Papa, erano divenute importanti soprattutto in epoca ellenistica, quando Israele sentiva minacciata la propria identita' e la propria fede. Le prescrizioni della legge erano una sorta di "muro di difesa di questa identità". Per lo stesso motivo, Paolo perseguitava i cristiani. "Nel momento dell'incontro con il Risorto - ha scandito Benedetto XVI - Paolo ha capito che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata: il Dio di Israele diventa il Dio di tutti i popoli, il muro tra Israele e i pagani non e' piu' necessario: Cristo ci protegge dal politeismo, ci unisce a Dio e ci garantisce l'identita' nella diversita' delle culture. E' lui che ci fa giusti". Infatti, "essere giusti e' essere con Cristo e questo basta. La comunione con Cristo - ha proseguito il Pontefice - crea carita': preghiamo il Signore che ci aiuti a credere e che questo diventi vita e cosi' trasformati al suo amore possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio". "L'espressione ‘sola fide' - quindi - e' vera se non si oppone alla carita' e all'amore: bisogna guardare Cristo, affidarsi a Cristo, conformarsi con Cristo, alla forma e alla vita di Cristo, che e' l'amore. La fede opera per mezzo della carita'. Nell'amore di Dio e del prossimo e' adempiuta tutta la legge". E nella festa di Cristo Re, che la Chiesa celebra Domenica prossima, ha concluso il Papa, si afferma proprio che "il Giudice ha come criterio l'amore".

sabato 15 novembre 2008

"Venga meno l'atteggiamento di sufficienza": così è l'intero passato a essere disprezzato!"

Tratto da Joseph Ratzinger, "Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio", Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo 2001, pp. 379-381


"C'è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse un oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da sé stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell'inventiva di un pugno di persone abili e capaci.

Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l'abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. È troppo poco, e insieme di qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste.

Rinunciare a cercare in essa al propria autorealizzazione, per vedervi invece un dono. Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell'uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di "riforma della riforma". Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali.

Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l'atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all'indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente di questo genere; così è l'intero passato della Chiesa a essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, a essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all'interno della Chiesa.

Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Ad Avignone, ad esempio, il parroco del Duomo mi ha raccontato che una domenica si sono improvvisamente presentati tre diversi gruppi, ognuno dei quali parlava una lingua diversa, e tutti e tre desiderosi di celebrare la Messa. Propose quindi di recitare il Canone tutti insieme in latino, così avrebbero potuto concelebrare tutti quanti. Ma tutti hanno respinto bruscamente questa proposta: no, ognuno doveva trovarci qualcosa di proprio. O pensiamo anche a località turistiche: dove sarebbe bello potersi riconoscere tutti in qualcosa di comune.

Dovremmo quindi tenere presente anche questo. Se nemmeno nelle grandi liturgie romane si può cantare il "Kyrie" o il "Sanctus", se nessuno sa più nemmeno cosa significhi il "Gloria", allora si è verificato un depauperamento culturale e il venire meno di elementi comuni. Da questo punto di vista direi che il servizio della parola dovrebbe essere tenuto in ogni caso nella lingua madre, ma ci dovrebbe anche essere una parte recitata in latino che garantisca la possibilità di ritrovarci in qualcosa che ci unisce".

Joseph Ratzinger

lunedì 27 ottobre 2008

"Se non c'è sguardo verso Dio, tutto il resto perde direzione"

Città del Vaticano, 22 ott. (Apcom) - La cosiddetta messa 'spalle al popolo' non è un'invenzione peregrina, ma una prassi invalsa presso gli antichi cristiani - e superata solo in tempi moderni - che mette in evidenza come preti e fedeli preghino insieme Dio, vero centro della liturgia e della vita cristiana: lo ribadisce il Papa in un passaggio dell'introduzione all'undicesimo volume in lingua tedesca della sua 'opera omnia' presentato oggi in Vaticano.

Joseph Ratzinger ripercorre la vicenda delle polemiche suscitate da un suo libro pubblicato nel 2000, quando era cardinale, 'Lo spirito della liturgia. Un'introduzione', per fare chiarezza. Fautore di una liturgia sobria e solenne (da Papa, ad esempio, ha promulgato il Motu proprio che ha liberalizzato il messale tridentino, la cosiddetta messa in latino), Benedetto XVI spiega che nel volume del 2000 affrontava la questione liturgica in modo ampio e dettagliato. "Purtroppo quasi tutte le recensioni si sono concentrate su alcuni capitoli: l'altare e la direzione della preghiera nella liturgia. I lettori delle recensioni si devono essere convinti che l'intero libro trattava della direzione nelle celebrazioni e che il suo contenuto era di voler reintrodurre la messa 'spalle al popolo'. Di fronte a queste rappresentazioni - confessa il Papa - per un certo tempo ho pensato di eliminare quel capitolo - nove pagine di circa duecento - in modo che potesse finalmente emergere quello che nel libro effettivamente mi interessava".

Un'idea alla quale rinunciò, spiega Benedetto XVI, tanto più che nel frattempo sono stati pubblicati altri libri (di U.M. Lang e di S. Heid) che fanno chiarezza in materia. E spiegano ancor più diffusamente quello che Ratzinger aveva affermato. "Il pensiero che preti e fedeli nella preghiera si guardino l'un l'altro è emersa solo nei tempi moderni ed era del tutto estranea agli antichi cristiani", scrive oggi il Papa. Il senso del suo ragionamento, allora, era "non di fare nuove trasformazioni, ma semplicemente mettere al centro dell'altare la croce che presti e credenti guardano insieme, per farsi guidare dal Signore che tutti pregano insieme".

mercoledì 22 ottobre 2008

Il Cardinal Arinze: la Messa continua nella vita dei credenti.

Il cardinale Arinze, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, illustra le iniziative per dare attuazione al Sinodo del 2005 sull'Eucaristia.

di Gianluca Biccini

L'Ite, missa est affiancato da formule alternative che esprimono la dimensione missionaria del saluto liturgico finale. Il gesto dello scambio della pace anticipato tra la preghiera dei fedeli e l'offertorio. E poi un compendio eucaristico per aiutare i fedeli a capire ogni gesto della celebrazione del sacramento dell'altare. E un elenco dei grandi temi della fede proposto ai sacerdoti per le omelie domenicali, durante il ciclo triennale.
Tempo di "lavori in corso" alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. La definizione è del cardinale prefetto Francis Arinze, che ha illustrato all'assemblea del Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio in svolgimento in Vaticano i quattro progetti a cui il dicastero ha dedicato gran parte della sua attività in questi ultimi due anni. Piccoli interventi per rispondere ad alcune osservazioni emerse dai lavori della precedente assemblea sinodale del 2005 sull'Eucaristia e poi recepite dall'esortazione apostolica Sacramentum Caritatis. Benedetto XVI ha dato indicazioni precise sulle singole questioni, offrendo già in un caso - quello dell'Ite, missa est - le concrete alternative praticabili. In questa intervista al nostro giornale il cardinale nigeriano spiega nel dettaglio le iniziative presentate sabato scorso ai padri sinodali, illustrandone le motivazioni, le modalità e i tempi di attuazione.


Ite, missa est, "La messa è finita, andate in pace". Questa espressione ormai divenuta familiare è destinata a scomparire?
No, viene integrata con altre tre possibilità. Il numero 51 della Sacramentum Caritatis ha ribadito che il saluto al termine della celebrazione eucaristica, con cui il diacono o il sacerdote congeda il popolo, permette di cogliere il rapporto tra messa celebrata e missione cristiana nel mondo. "Nell'antichità - ricorda Benedetto XVI - missa significava semplicemente "dimissione"". Tuttavia l'espressione ha trovato nell'uso cristiano un significato più profondo trasformandosi in "missione". Il saluto così esprime la natura missionaria della Chiesa e, di conseguenza, è opportuno aiutare il popolo di Dio ad approfondire tale dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia. In tale prospettiva il Papa ha ritenuto utile "disporre di testi, opportunamente approvati, per l'orazione sul popolo e la benedizione finale che esplicitino tale legame".


Dunque l'antica formula non è sufficientemente esplicita in questo senso?
A me sembra che per tanti cattolici l'espressione significhi semplicemente: "Ora la messa è finita, andate a riposarvi". Molti padri sinodali avevano auspicato formule alternative per esprimere la dimensione missionaria del saluto finale. Per esempio: "La celebrazione eucaristica è finita. Andate adesso a vivere ciò che abbiamo sentito, ricevuto, cantato, pregato e meditato". Interpellata dal Pontefice la nostra Congregazione ha avviato uno studio cui è seguita una vasta consultazione dalla quale sono emerse ben 72 formule alternative. Prima di presentarle a Benedetto XVI abbiamo ridotto il loro numero a nove e questi ne ha scelte tre: Ite ad Evangelium Domini annuntiandum; Ite in pace, glorificando vita vestra Dominum; Ite in pace.


Queste tre possibilità sono già operative?
Sì, le formule sono state inserite nel Missale Romanum, terza Editio Tipica Emendata pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana la settimana scorsa. A pagina 605 si può vedere che l'Ite, missa est non è stato abolito, ma solo affiancato da altre alternative. Vorrei aggiungere che i messali approvati nel passato per diverse nazioni, con altre alternative, accolgono sostanzialmente quelle scelte.


E per quanto riguarda la possibilità di modificare la collocazione dello "scambio della pace" nell'ambito della celebrazione liturgica?
Diciamo anzitutto che si tratta ancora di un'ipotesi. Al numero 49 dell'esortazione apostolica il Papa premette che "l'Eucaristia è per sua natura Sacramento della pace" e che "questa dimensione del Mistero eucaristico trova nella Celebrazione liturgica specifica espressione nel rito dello scambio della pace". Un "segno di grande valore" dunque che "nel nostro tempo, così spaventosamente carico di conflitti", acquista un particolare rilievo anche dal punto di vista della sensibilità comune, in quanto "la Chiesa avverte sempre più come compito proprio quello di implorare dal Signore il dono della pace e dell'unità per se stessa e per l'intera famiglia umana". Per Papa Ratzinger "la pace è un anelito insopprimibile, presente nel cuore di ciascuno", tanto che "la Chiesa si fa voce della domanda di pace e di riconciliazione che sale dall'animo di ogni persona di buona volontà". Da tali premesse si comprende l'intensità con cui il rito della pace è sentito nel contesto della celebrazione liturgica.


Perché allora l'ipotesi di spostarlo?
Già durante il Sinodo del 2005 era stata rilevata l'opportunità di moderare questo gesto, che - rileva la Sacramentum Caritatis - "può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell'assemblea proprio prima della Comunione". Di qui il suggerimento di "limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino", per evitare il perpetuarsi di una situazione diventata in molte chiese un momento chiassoso, quasi un jamboree che avviene proprio appena prima della Comunione. Si è inoltre pensato a un possibile trasferimento del gesto a un altro momento della celebrazione. Il Papa ha domandato alla nostra Congregazione di fare delle proposte. E noi abbiamo organizzato una vasta consultazione i cui risultati sono stati inoltrati al Pontefice. Lo stesso, dopo aver studiato le sintesi, ci ha incaricati di scrivere alle Conferenze episcopali locali per chiedere loro di scegliere tra due possibilità di collocazione del segno della pace: lasciarlo dov'è, subito prima dell'Agnus Dei oppure anticiparlo tra la preghiera dei fedeli e l'offertorio.

E qual è stato il risultato di questa seconda consultazione?
Ancora non abbiamo ricevuto tutte le risposte. Contiamo di averle entro la fine di ottobre. Poi, alla fine del mese successivo, la nostra Congregazione farà il commento delle indicazioni ricevute e lo porterà al Papa per la decisione definitiva.

Nell'attuale sinodo si sta facendo strada l'idea di un "compendio della Parola" sulla scia di quelli analoghi del catechismo della Chiesa cattolica e della dottrina sociale. Anche in quello precedente era emersa una richiesta del genere in riferimento all'Eucaristia?
Il numero 93 della Sacramentum Caritatis parla dell'"utilità di un Compendio eucaristico" e Benedetto XVI ha voluto accogliere anche la richiesta avanzata dai padri sinodali per aiutare il popolo cristiano a credere, celebrare e vivere sempre meglio il mistero eucaristico. La nostra Congregazione è stata dunque chiamata in causa insieme a quella per la Dottrina della Fede.

Che cosa è stato fatto in concreto?
Al compendio stanno lavorando molti teologi, consultori e membri delle due Congregazioni. I lavori confluiranno in un libro che sarà suddiviso in varie parti: una sintesi della dottrina sull'Eucaristia, gli inni per la benedizione eucaristica, le ore di adorazione e le processioni eucaristiche; l'ufficio divino per Corpus et Sanguis Christi; le preghiere prima e dopo la messa, le preghiere dei santi a Gesù eucaristico, le preghiere per il sacerdote che si prepara alla messa; brani tratti dal magistero papale, dal Codice di Diritto canonico, dall'Imitazione di Cristo. Bisogna precisare che il compendio sarà proposto, non imposto. E posso anche affermare che non è lontana la sua pubblicazione.


Veniamo alla questione delle omelie tematiche. Non si corre il rischio di omologare la predicazione domenicale, di lasciare poco spazio alla riflessione individuale e all'approfondimento da parte del sacerdote?
Al contrario. Il Papa al numero 46 della Sacramentum Caritatis sottolinea la necessità di migliorare la qualità dell'omelia, che è parte dell'azione liturgica e ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli. Per questo i ministri ordinati devono prepararle accuratamente basandosi su una conoscenza adeguata della Scrittura. Il Pontefice a tal fine invita a evitare "omelie generiche o astratte" e chiede agli interessati di fare in modo che esse pongano la Parola di Dio proclamata in stretta relazione con la celebrazione sacramentale e con la vita della comunità. Da qui la richiesta di tener presente "lo scopo catechetico ed esortativo dell'omelia" e il richiamo dell'opportunità di proporre ai fedeli omelie tematiche che, partendo dal lezionario triennale, lungo l'anno liturgico, trattino i grandi temi della fede cristiana. Questi ultimi a loro volta devono fare riferimento a quanto proposto dal magistero nei quattro "pilastri" del Catechismo della Chiesa Cattolica e del suo compendio: professione della fede, celebrazione del mistero, vita in Cristo, preghiera cristiana.

Che cosa significa in pratica?
Il Sinodo del 2005 ha proposto la compilazione di temi per l'omelia domenicale in modo tale che in un ciclo di tre anni nessun grande argomento della nostra fede venga omesso. Il fatto è che non tutti i sacerdoti hanno un programma comprensivo per le omelie. E poi ci sono dei temi difficili o delicati o semplicemente che non piacciono, i quali non vengono mai toccati da alcuni predicatori. Il Papa ha perciò domandato a noi e alle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per il Clero di preparare un elenco. Non si tratterà di omelie-modello, ma di indicazioni generali in cui per ogni tema verranno forniti elementi per poterlo sviluppare.

A che punto è il lavoro?
Siamo quasi alla metà. E vorrei ribadire che, anche in questo caso, si tratterà di una proposta, non di un'imposizione per i predicatori. Si cercherà in ogni caso di rispettare la natura dell'omelia e i testi liturgici.


© L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2008

sabato 18 ottobre 2008

"LA RIFORMA DI BENEDETTO XVI", i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».

“La riforma di Benedetto XVI”, i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».

“La riforma di Benedetto XVI”, i cambiamenti al Culto Divino

di Andrea Tornielli
da "Il Giornale"

Non è sempre facile comprendere, nella selva delle dichiarazioni polemiche e delle semplificazioni giornalistiche, quale sia il vero messaggio che Benedetto XVI, con il suo esempio prima ancora che con la sua parola, intende dare alla Chiesa in merito alla celebrazione liturgica. Il ripristino della croce al centro dell’altare, il recupero di antichi paramenti e soprattutto la promulgazione del motu proprio che nel 2007 ha liberalizzato il rito preconciliare sono al centro di dibattiti e discussioni, spesso polarizzate in fronti opposti e non privi di coloriture estremistiche.
È quindi da salutare come una buona notizia l’uscita del libro di don Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI (Piemme, pp 128, 12 euro, il libreria da martedì), un volume agile e al tempo stesso denso e documentato, prefato da Vittorio Messori. Un libro che aiuta a «leggere» gli atti e iniziative liturgiche del pontificato ratzingeriano riportandole al loro significato più profondo, senza il quale si rischia di giudicarle come nostalgiche esteriorità da una parte, rivincite restauratrici dall’altra. Bux, teologo stimato dallo stesso Pontefice, esperto di teologia e liturgia orientali, spiega che «la natura della sacra liturgia è di essere il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo», non «qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare una esperienza religiosa», bensì «il cantare con il coro delle creature e l’entrare nella realtà cosmica stessa».
È stato il perdere di vista il suo profondo significato che ha fatto deformare il movimento liturgico post-conciliare, «sia per opera di chi considerava la novità sempre come la cosa migliore, sia per opera di chi voleva ripristinare l’antico come l’ottimo in ogni occasione». La decisione del Papa di ridare piena cittadinanza alla forma antica del rito romano, spiegando al tempo stesso che i due messali non appartengono a due riti diversi, «è una risposta a quanti, tradizionalisti e innovatori, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morte con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità: una vera e propria cesura!». Bux ricorda che il Papa, nella lettera inviata ai vescovi come accompagnamento del motu proprio, suggerisce (non obbliga) che quanti celebrano con l’antico messale celebrino anche con il nuovo: «Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso». Anche perché sarebbe paradossale che la messa culminante con l’eucaristia, sacramento dell’unità e della pace, «finisca per diventare segno di divisione, di discordia». A questo proposito don Bux osserva che «della litiurgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni gruppi tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global (vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari)».
È necessaria, insomma, una «riforma della riforma», che al contrario di quella postconciliare parta dal basso e non sia imposta dagli esperti, perché «se l’antica liturgia era un “affresco coperto”, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo». «La riforma liturgica – scrive il teologo – non è affatto perfetta e conclusa: c’è bisogno di correzioni e integrazioni, procedendo però in modo differente dal tempo postconciliare, non imponendo obblighi se non quelli necessari, illustrando le possibilità e promuovendo il dibattito». Lo scopo ultimo della liturgia è l’incontro con il mistero, la riscoperta di una nuova sensibilità, un adeguato spazio al sacro, al silenzio, all’ascolto, per evitare che la liturgia si trasformi – come purtroppo accade spesso – in «esibizione di attori e esondazione di parole».
Con il libro, essenziale ma davvero importante, Bux si propone di «aiutare a comprendere e a celebrare degnamente la liturgia come possibilità di incontro con la realtà di Dio e causa della moralità dell’uomo, a leggere le degradazioni sintomo di vuoto spirituale indicando la via per restaurarne lo spirito nel segno dell’unità della fede apostolica e cattolica, a promuovere un dibattito serio e un cammino educativo seguendo il pensiero e l’esempio del Papa che consenta di riprendere il movimento liturgico».

domenica 28 settembre 2008

“La Fede cattolica va insegnata nella sua integrità”

articolo tratto da www.papanews.it

CITTA’ DEL VATICANO - Non si possono scegliere le pagine del Vangelo e i precetti della Chiesa che piu' fanno comodo. La fede cattolica va insegnata "nella sua integrita', con il coraggio e la persuasione propria di chi vive in essa e per essa, senza rinunciare a proclamare esplicitamente i valori morali della dottrina cattolica, che a volte sono oggetto di discussione in ambito politico, culturale, sui mezzi di comunicazione sociale, come accade per i valori riferiti alla famiglia, la sessualita', la vita". Lo ha ribadito Benedetto XVI ai vescovi dell'Uruguay, ricevuti in "visita ad limina". La Parola di Dio, ha sottolineato il Papa, e' "tanto piu' necessaria in un tempo in cui tante altre voci cercano di far tacere Dio nella vita personale e sociale, conducendo gli uomini a minare l'autentica speranza e a disinteressarsi della ferrea verita' nella quale il cuore dell'uomo puo' riposare". Ai presuli, il Pontefice ha anche ricordato che la visita ai sepolcri dei Santi Pietro e Paolo e' "una opportunita' per rafforzare i legami di unita' effettiva ed affettiva del collegio episcopale, da intendere come manifestazione suprema dell'ideale, caratteristico della comunita' cristiana delle origini, di essere un solo cuore e una sola anima, ed esempio visibile per promuovere lo spirito di fraternita' e concordia nei vostri fedeli e nella societa' attuale, tante volte dominata dall'individualismo e da una competizione esasperata".

martedì 9 settembre 2008

L'Eucarestia: diritto o dono?

Intervista con S.E. Mons. Raymond L. Burke
di Thomas J. McKenna

Fonte: "Radici Cristiane" n. 37 - Ago/Set 2008
articolo tratto da http://rivoltialsignore.blogspot.com

Eccellenza, sembra che oggi prevalga una visione lassista nei riguardi della ricezione dell'Eucaristia. Perché? Crede poi che questo influenzi i fedeli nel modo di vivere come cattolici?

Una delle ragioni per cui credo che questo lassismo sia andato sviluppandosi è l'insufficiente enfasi nella devozione eucaristica: in modo speciale mediante il culto al Santissimo con le processioni; con le benedizioni del Santissimo; con tempi più lunghi per l'adorazione solenne e con la devozione delle Quaranta Ore. Senza devozione al Santissimo Sacramento la gente perde rapidamente la fede eucaristica. Sappiamo che c'è una percentuale elevata di cattolici che non crede che sotto le specie eucaristiche ci siano il corpo e il sangue di Cristo. Sappiamo inoltre esserci un'allarmante percentuale di cattolici che non partecipano alla Messa domenicale. Un altro aspetto è la perdita del senso di collegamento fra il sacramento della Eucaristia e quello della Penitenza. Forse nel passato c'è stata un'enfasi esagerata al punto che la gente credeva che ogni volta che si riceveva l'Eucaristia si doveva prima confessare anche se non avevano un peccato mortale. Ma ora la gente va regolarmente a comunicarsi e forse mai, o molto di rado, si confessa. Si è perso il senso della nostra propria indegnità per accostarci al Sacramento e del bisogno di confessare i peccati e far penitenza al fine di ricevere degnamente la Sacra Eucaristia. Si somma a questo il senso sviluppatosi a partire dalla sfera civile che consiste nel credere che ricevere l'Eucaristia sia un diritto. Cioè che come cattolici abbiamo il diritto di ricevere la Comunione. È vero che una volta che siamo stati battezzati e abbiamo raggiunto l'uso della ragione, dovremmo essere preparati per ricevere la Sacra Comunione e, se siamo ben disposti, dobbiamo riceverla. Ma d'altra parte noi non abbiamo mai un diritto di ricevere l'Eucaristia. Chi può rivendicare un diritto a ricevere il Corpo di Cristo? Tutto è un atto senza misure dell'amore di Dio. Nostro Signore si rende Egli stesso disponibile nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma non possiamo mai dire di avere diritto a riceverLo nella Santa Comunione. Ogni volta che ci accostiamo a Lui, dobbiamo farlo con un senso profondo della nostra indegnità. Questi sarebbero alcuni degli elementi che spiegano l'atteggiamento lassista verso l'Eucaristia in genere. Lo vediamo anche nel modo con cui alcune persone vestono per ricevere la Sacra Comunione. Per esempio, vediamo gente che si avvicina alla Comunione senza unire le mani e persino a volte parlottando fra di loro. Alcuni perfino nel momento di ricevere l'Ostia, non dimostrano un'adeguata riverenza. Tutto ciò è indicazione del bisogno di una nuova evangelizzazione nei riguardi della fede e della pratica eucaristica.

Ci sono leggi della Chiesa per impedire condotte inadeguate da parte dei fedeli a beneficio della comunità. Potrebbe commentarle e spiegarci fino a che punto la Chiesa e la Gerarchia hanno un obbligo di intervenire allo scopo di chiarire e correggere.

Nei riguardi dell'Eucaristia, per esempio, ci sono due canoni in particolare che hanno a che fare con la degna ricezione del Sacramento. Essi hanno come scopo due beni. Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il Corpo e il Sangue di Cristo è un sacrilegio. Se lo si fa deliberatamente in peccato mortale, è un sacrilegio. Quindi per il bene della persona stessa, la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l'Eucaristia, dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza. Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l'assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e noti solo a noi stessi e forse a pochi altri. In quel caso, dobbiamo essere noi a tenere sotto controllo la situazione ed essere in grado di disciplinarci in modo di non ricevere la Comunione. Ma ci sono altri casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, come un ufficiale pubblico che con conoscenza e con sentimento sostiene azioni che sono contro la legge morale Divina ed Eterna. Per esempio, pubblicamente appoggia l'aborto procurato, che comporta la soppressione di vite umane innocenti e senza difesa. Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la Comunione finché non abbia riformato la propria vita.Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la Comunione, allora il ministro dell'Eucaristia ha l'obbligo di rifiutargliela. Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere. Primo, uno scandalo riguardante quale debba essere la nostra disposizione per ricevere la Santa Comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all'Eucaristia. Secondo, ci potrebbe essere un'altra forma di scandalo, consistente nell'indurre la gente a pensare che l'atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credono sia un peccato serio, non debba esserlo tanto se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la Comunione. Se abbiamo una figura pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti e che riceve l'Eucaristia, che finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto in un certo qual modo sopprimere una vita innocente nel seno materno. Ora la Chiesa ha queste discipline e sono molto antiche. In realtà risalgono ai tempi di san Paolo. Ma lungo la sua storia, la Chiesa ha sempre dovuto disciplinare la materia della ricezione della Comunione, che è il più sacro tesoro che essa possiede.È il dono del Corpo e del Sangue di Cristo. Disciplinare questa pratica in modo che, primo, la gente non si avvicini né riceva la Santa Comunione indegnamente a costo del proprio danno morale e, secondo, che la fede eucaristica sia sempre rispettata e i fedeli non siano indotti in confusione, persino in errore, nei riguardi della sacralità del sacramento e della legge morale.

Eccellenza, ci sono casi in cui figure pubbliche vanno a Messa, ricevono i sacramenti e pubblicamente dicono di essere cattolici ma che, in pratica, sostengono legislazioni contrarie alla morale cattolica. Alcuni di loro, come scusante, sostengono di sentire in coscienza che non fanno niente di sbagliato e che comunque è una vicenda privata. Lei potrebbe spiegare perché questa posizione è erronea e come la formazione della propria coscienza non sia una questione soggettiva.

È vero che dobbiamo agire in modo conforme ai dettami della nostra coscienza, ma essa deve essere adeguatamente formata. La nostra coscienza deve conformarsi alla verità delle situazioni. Essa non è una realtà soggettiva con cui giudico per me stesso cosa è bene e cosa è male. Anzi, essa è una realtà oggettiva per la quale devo conformare il mio pensiero alla verità.A volte si sente parlare del primato della coscienza nel senso di dire "qualsiasi cosa io decida in coscienza, questo devo fare", e un tale assioma poi regola la vita. Certo, questo è vero se la coscienza è stata formata adeguatamente. Amo ripetere quello che ha detto il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: "anziché parlare di primato della coscienza dobbiamo parlare di primato della verità". Cioè, la verità della legge morale di Dio con la quale la nostra coscienza deve conformarsi. Fatto questo, allora sì che la coscienza ha quel primato che le viene attribuito.

Alcune persone dicono che è parte del diritto di ricevere la Comunione non sentirsi dire da nessuno, neppure da un vescovo, da un sacerdote o da un ministro dell'Eucaristia, cosa devono fare al riguardo. Cosa ne pensa?

Anzitutto bisogna dire che il Corpo e il Sangue di Cristo sono un dono dell'amore di Dio per noi. Il più grande dono, un dono che va oltre la nostra capacità di descriverlo. Dunque nessuno ha diritto a questo dono, esattamente come non abbiamo mai diritto a nessun dono che ci viene fatto. Un dono è gratuito, causato dall'amore, e ciò è precisamente quanto Dio fa ogni volta che partecipiamo alla Messa e riceviamo la Sacra Eucaristia. Pertanto, dire che abbiamo diritto di ricevere la Comunione non è corretto. Se vogliamo dire che, se siamo ben disposti, possiamo accostarci all'Eucaristia nella Messa che si sta celebrando, che abbiamo il diritto di ricevere la Comunione nel senso che abbiamo il diritto di avvicinarci per farlo, allora sì, questo è vero.Orbene, nella ricezione della Sacra Eucaristia sono coinvolti Nostro Signore stesso, la persona che la deve ricevere, e infine il ministro del sacramento, che ha la responsabilità di assicurarsi che l'Eucaristia sia data solo alle persone degne di riceverla. Certamente la Chiesa ha il diritto di dire a chi persiste in un serio peccato pubblico, che non potrà ricevere la Comunione finché non sarà ben disposto per farlo. Questo diritto del ministro di rifiutarsi a dare la Comunione a qualcuno che persiste nel peccato grave e pubblico è salvaguardato dal codice di Diritto Canonico sotto il canone 915. Altrimenti, se si vede negare il diritto del rifiuto a dare l'Eucaristia a un peccatore pubblico che si avvicini a riceverla dando scandalo a tutti, è il ministro che viene messo in situazione di violentare la propria coscienza al riguardo di una materia serissima. Ciò sarebbe semplicemente sbagliato.

Eccellenza, sembra che spesso la richiesta di adempire la legge canonica da parte di un vescovo, di un sacerdote e persino di un'autorità della Curia vaticana, è vista da alcuni come una crudeltà, come un atto prevaricatore nei riguardi dei fedeli. Non vedono questo come un atto di carità, finalizzato a evitare che qualcuno si accosti all'Eucaristia in modo indegno compromettendo la sua salvezza eterna. Per questa ragione la Chiesa ha le sue regole. Potrebbe commentare questo aspetto del ministero?

Sono d'accordo, certo. E il più grande atto di carità evitare che qualcuno faccia una cosa sacrilega. Prima si deve ammonire chi vuole farlo e poi si deve evitare di prendere parte a un sacrilegio.È una situazione analoga a quella del genitore che deve opporsi a che il bambino giochi col fuoco. A chi verrebbe di dire che il genitore non è caritatevole perché lo richiama alla disciplina? Anzi, diremmo che questo è un genitore che veramente ama il figlio. Lo stesso fa la Chiesa; nel suo amore Essa vieta di far cose gravemente offensive a Dio e gravemente dannose alle anime stesse.

Si dice a volte che quando un membro della Gerarchia ammonisce cattolici che sono figure pubbliche, stia usando la sua influenza per interferire nella politica. Come risponde a questa obiezione?

Il vescovo o l'autorità ecclesiastica, potrebbe essere anche il parroco, che interviene in queste situazioni, lo fa solo per il bene dell'anima della figura pubblica coinvolta. Non c'entra nulla la volontà di interferire nella vita pubblica, bensì nello stato spirituale del politico o dell'ufficiale pubblico che, se è cattolico, è tenuto a seguire la legge divina anche nella sfera pubblica. Se non lo fa, deve essere ammonito dal suo pastore. Dunque, è semplicemente ridicolo e sbagliato cercare di zittire un pastore accusandolo di interferire in politica affinché non possa fare il bene all'anima di un membro del suo gregge. Questo si desume anche da quanto ha denunciato il Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi, cioè il desiderio di alcune persone della nostra società di relegare completamente la fede religiosa nell'ambito privato, affermando che essa non ha niente a che fare con l'ambito pubblico. Questo è semplicemente sbagliato. Dobbiamo dare testimonianza della nostra fede non soltanto nel privato dei nostri focolari ma anche nel nostro interagire pubblico con gli altri, per dare una forte testimonianza di Cristo. Quindi dobbiamo finirla con l'idea che in un certo qual modo la nostra fede è una materia completamente privata che non c'entra con la nostra vita pubblica.

martedì 26 agosto 2008

Disobbedienti alla Chiesa i chierici che non indossano l'abito ecclesiastico

di Matteo Orlando
www.papanews.it


CITTA’ DEL VATICANO - Il Codice di Diritto Canonico prescrive: “I religiosi portino l’abito dell’Istituto (religioso cui appartengono)… quale segno della loro consacrazione…” (can. 669); “I chierici (cioè diaconi, preti e vescovi) portino un abito ecclesiastico decoroso…” (can. 284). La Conferenza Episcopale Italiana (CEI), a sua volta, specificando quanto prescrive il Diritto canonico, stabilisce: “Salve le prescrizioni per le celebrazioni liturgiche, il clero (diocesano) in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman”. (Notiziario CEI 9,1983, 209). Su questa linea del Diritto Canonico e della CEI si sono espressi tutti Papi dal Concilio ai nostri giorni. Eppure la disaffezione di tanti preti e religiosi al loro precipuo abito è sotto gli occhi di tutti. Per cui sembra che frati e preti siano scomparsi dalla circolazione, mimetizzati come sono in abiti borghesi. Ma il loro è un ministero, un servizio, un impegno pubblico: non possono né devono perciò nascondere la loro identità. La loro disobbedienza alla Chiesa diminuisce la stima del popolo di Dio verso il clero diocesano e gli stessi religiosi, e quindi la loro incidenza pastorale. Dimenticano questi nostri fratelli maggiori che l’abbigliamento non è un puro accessorio, è un biglietto di presentazione. Infatti l’abito ha: un valore psicologico: ricorda a chi lo indossa e a chi lo vede impegni, appartenenza, decoro, spirito di corpo, dignità. Obbliga a riflettere sia chi lo indossa sia colui che lo vede; un valore sociologico: è l’affermazione pubblica della propria condizione, e quindi l’esplicita dichiarazione del proprio appartenere a Cristo e alla Chiesa cattolica; un valore teologico: esprime la partecipazione della corporeità alla dedicazione a Dio di tutta la persona; è manifestazione di quell’elezione divina per cui un uomo viene scelto e separato dagli altri uomini, per essere costituito al loro servizio nelle cose che riguardano Dio. Nonostante che certi sacerdoti, religiosi e suore, nelle loro rette intenzioni, credano di essere più popolari e vicini a noi laici vestendo o abbigliandosi come noi, sappiano che si sbagliano di grosso. Noi li vogliamo diversi da noi nella santità, ma anche nell’abito che ci ispira fiducia e ce li mostra visibilmente obbedienti alla Chiesa. Purtroppo non basta fare leggi e dare disposizioni, sono indispensabili la vigilanza e i richiami dei superiori, sia Vescovi che Superiori religiosi: vigilanza e richiami sono quasi del tutto mancati. Il calo delle vocazioni, sia sacerdotali che religiose, è dovuto, in parte, alla mancanza del fascino della divisa: tale fascino non è la vocazione, ma può essere uno degli elementi ordinari che ne preparino il seme divino. La vocazione non è una folgorazione, bensì qualcosa che si riceve in un contesto educativo e di preghiera (es. i genitori che chiedono al Signore la vocazione per il figlio o la figlia); in questo contesto educativo si inserisce il saio del frate o della suora, la talare o il clergyman del prete. Sapessero, certi sacerdoti, quante volte ha cantato vittoria Satana, durante recenti esorcismi, per essere riuscito a “spogliare” il clero!

domenica 27 luglio 2008

Testamento biologico, quali considerazioni?

da zenit.org

ROMA, domenica, 27 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento di Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara, in risposta alle questioni sollevate da due lettori di ZENIT a commento di articoli che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, rispettivamente Il caso Eluana e la dimensione della dipendenza e Il caso Eluana, quando i giudici vanno contro la Costituzione.
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Mi spiace ma non sono d'accordo: io non voglio diventare un soprammobile sopra un letto. Io non voglio dipendere da un sondino e da un respiratore. Io esisto solo se indipendente. E sono convinto che le macchine che tengono in vita Eluana e prima di lei Piergiorgio Welby siano una violenza contro la natura: la vita umana finisce quando si smette di respirare, poco importa se cuore e cervello vivano ancora. Non respiro più? Allora sono morto e voglio essere decretato morto. Questo pretendo di poter scrivere sul mio testamento biologico se mai ci sarà: io rifiuto l'alimentazione e la respirazione artificiale a meno che non siano trattamenti reversibili, se io posso sopravvivere solo grazie a tubi allora chiedo di essere lasciato morire perché i tubi impediscono la morte naturale.

D.R.

Gentile signor R.,

mi permetta di dirle che nessuno diventa mai un soprammobile su di un letto! Si immagina come sarebbe il nostro mondo, se così avessero pensato i medici e le persone che degli ammalati (non delle malattie!) hanno fatto la loro ragione di vita fino all'eroismo laico e alla santità? Un immenso lazzaretto, nella migliore delle ipotesi. O forse una landa deserta, visto che non ci sarebbero molti uomini in giro.

Vorrei inoltre dirle con tutta la dolcezza ma anche la competenza necessarie che Eluana non è tenuta in vita da alcuna macchina: non ha il respiratore, respira da sola. Non ha bisogno di dialisi, i suoi reni funzionano. Non ha alcun tubo, solo alla notte le viene collegato un tubicino simile a quello delle flebo che le porta acqua e sostanze nutritive nello stomaco. Non ci sarà alcuna spina da staccare, per farla morire: solo (!) non le sarà più dato né da bere né da mangiare. Anche il biberon è artificiale, ma il neonato lo rivendica molto rumorosamente: Eluana non può.

Dimenticavo: si dovranno darle molti farmaci per lenire il grido silenzioso che la sua biologia (umana, forse più della nostra titubanza) violentemente renderà evidente. Farmaci di cui ora non ha alcun bisogno: antidolorifici, anticonvulsivi, tranquillanti. Forse tramite un sondino simile a quello che ora le consente di non morire, forse con endovene.

E da ultimo (ma non per importanza): mi dispiace, ma nessuno di noi è davvero indipendente. Provi a pensare a quanto si sta male se gli altri, o almeno qualcuno, non si prende cura di noi! "Io esisto solo se indipendente", lei ha scritto; è vero piuttosto il contrario: ciascuno esiste solo perché Qualcuno si prende cura di lui.

Tanti cari auguri

in J et M

Chiara Mantovani

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Ho seguito con interesse la dotta disquisizione giuridica costituzionale ma non ho capito poi alla fine le conclusioni.

Sembra infatti che il testamento biologico non sia accettabile da un punto di vista, non solo etico religioso e questo è ovvio anche per me, ma anche dal punto di vista della libertà personale di non voler essere tenuto in vita a ogni costo perché comunque (il paradosso) alla fine sono altri a decidere.

Nel caso delle disposizioni testamentarie è valido quello che è stato detto e scritto dal defunto in un momento di pieno possesso delle facoltà mentali anche molti anni prima della morte; a nessuno verrebbe in mente di impugnare un testamento dicendo che forse in punto di morte il defunto se avesse potuto lo avrebbe cambiato.

Il problema purtroppo è che se si affronta il caso da un punto di vista etico religioso la risposta è scontata e semplice, ma entrando nel diritto allora ci si accorge che il problema non è poi così semplice e che occorrono quindi delle leggi giuste da seguire che attualmente mancano; vista poi la serietà dell'argomento dovrebbe essere vietata la manipolazione e l'interpretazione di parte di quel poco che si può evincere e capire dal diritto vigente e da quanto scritto nella nostra costituzione.

V.R.

Caro signor R.,

non so entrare nel merito giuridico delle sue considerazioni, ma mi sento di proporle una domanda. La mia sostanziale avversione nei confronti del testamento biologico nasce da essa: la vita è un bene alla pari di quelli patrimoniali? La legge italiana (se non sbaglio) permette che io disponga dei miei beni materiali ma non completamente, poiché - mi piaccia o no - una quota di essi andrà comunque al miei familiari, dal momento che anche su ciò che è mio a tutti gli effetti vige comunque un obbligo di provvedere a coloro che fanno parte della mia prima società di origine, la famiglia. E' come se - dal mio punto di vista giustamente - si considerasse il patrimonio come avente una valenza sociale, non solo strettamente privata. Bene, se questo ha una sua ratio per quanto riguarda la proprietà delle cose, a maggior ragione non dovrebbe valere per ciò che è più importante delle cose, ovvero la vita?

Se mi considero un individuo, solo e bastante a me stesso, se non reputo di avere importanza per la costruzione di una società, allora più facilmente anche la mia vita sarà un accessorio isolato di cui disporre a pieno piacimento. Ma se sono consapevole che è la mia vita, io stesso, ciò che costruisce anche il vivere altrui, allora avrò nei suoi confronti una stima ed una considerazione più alti.

Resto del parere che, al di là dei pur gravi problemi giuridici, la questione essenziale riguardi l'antropologia: che cosa pensiamo davvero che valga la vita umana.

E anche il legislatore e il giudice credo siano tenuti a dichiarare, in testa ad ogni loro pronunciamento, a quale ordine di valori fanno riferimento.

Grazie per il suo stimolante contributo

cordialmente

in J et M

Chiara Mantovani

venerdì 18 luglio 2008

“Ambiente, aborto, violenza, droga e sesso indiscriminato le vere cicatrici della società moderna”

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SYDNEY (AUSTRALIA) - Il Papa a 'tu per tu' con 500mila giovani; il Papa preoccupato per le ferite della società, "cicatrici" che partono dalla mancanza di rispetto per l'ambiente, attraversando il degrado sociale e l'habitat umano, fino all'emergenza morale - droga e sesso - e fino alla violenza del grembo materno. Un'analisi chiara e a 360 gradi quella che Benedetto XVI ha fatto a Sydney, di fronte a oltre 140mila pellegrini (mezzo milione in tutta la città) che si sono radunati sin dalle prime ore dell’alba nella baia di Barangaroo, per la festa di accoglienza al successore di Pietro in occasione della XXIII edizione della Giornata Mondiale della Gioventù. Primo bagno di folla, dunque, per il Pontefice, arrivato al molo a bordo di un mega-battello che ha attraversato le baie della capitale australiana. Suggestiva la cerimonia in stile aborigeno, tra canti e danze tradizionali e con una simbologia degna di contenuto: come il saluto alla Rose Bay, prima di lasciare il suolo, quando l'anziano aborigeno Uncle Allen Madden ha donato a Benedetto XVI un passaporto per le terre aborigene e un antico bastone di legno intarsiato. Festa che sta a indicare gli 'anziani' custodi della zona che danno il benvenuto all'ospite inteso non come colonizzatore ma amico e padre spirituale. E davanti alla gioventù di tutto il mondo, ai giovani speranza e futuro dell'umanità, il Papa parla chiaramente: "Forse con riluttanza - dice - giungiamo ad ammettere che vi sono anche delle ferite che segnano la superficie della terra: l'erosione, la deforestazione, lo sperpero delle risorse minerali e marine per alimentare un insaziabile consumismo". E' un appello forte alla tutela del Creato, tema caro a Benedetto XVI, che già nell'aereo che lo portava in Australia aveva lasciato intendere la sua sensibilità verso l’argomento. "La meravigliosa creazione di Dio - sottolinea il Papa - viene talvolta sperimentata come una realtà quasi ostile per i suoi custodi, persino come qualcosa di pericoloso. Come può ciò che è 'buono' apparire così minaccioso?", si domanda il Santo Padre. Dalle ferite all'ambiente naturale a quelle sociali il passo, per il Pontefice, è breve. "Scopriamo che non soltanto l'ambiente naturale, ma anche quello sociale - l'habitat che ci creiamo noi stessi - ha le sue cicatrici - afferma -, ferite che stanno ad indicare che qualcosa non è a posto. Anche qui, nelle nostre vite personali e nelle nostre comunità - prosegue il Papa -, possiamo incontrare ostilità a volte pericolose; un veleno che minaccia di corrodere ciò che è buono, riplasmare ciò che siamo e distorcere lo scopo per il quale siamo stati creati. Gli esempi abbondano, come voi ben sapete". E Benedetto XVI elenca: "L'alcool e l'abuso di droghe, l'esaltazione della violenza e il degrado sessuale, presentati spesso dalla televisione e da internet come divertimento". Un'analisi che arriva fino alla condanna del relativismo e del secolarismo. "Quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l'ordine naturale, lo scopo e il 'bene' comincia a svanire - ammonisce -: ciò che ostentatamente è stato promosso come umana ingegnosità si è ben presto manifestato come follia, avidità e sfruttamento egoistico". "Il nostro mondo si è stancato dell'avidità, dello sfruttamento e della divisione, del tedio di falsi idoli e di risposte ipocrite, e della pena di false promesse", sottolinea quindi il Papa teologo. Che conclude: "Come può essere che la violenza domestica tormenti tante madri e bambini? Come può essere che lo spazio umano più bello e sacro, il grembo materno (un chiaro riferimento all’aborto, ndr), sia diventato luogo di violenza indicibile?". Suggestivo l'arrivo del Pontefice a bordo dell'imbarcazione della Captain Cook Cruises 'Sydney 2000'. A bordo, insieme al Papa, anche 16 giovani (12 dei diversi continenti e 4 dall'Australia) con i quali Benedetto XVI ha scambiato qualche parola, non nascondendo di aver avuto paura di affrontare un volo così lungo come quello da Roma all’Australia, cioè da un capo all’altro del globo. Una guida ha mostrato al Santo Padre i diversi luoghi che si trovano da una baia all'altra. Un leggero venticello ha 'accarezzato' il viso del Pontefice, sorridente, sereno e felice per la festa ricevuta. All'arrivo a Barangaroo, Benedetto XVI è salito sulla papamobile per salutare i giovani, attraversando i diversi settori tra due ali di folla.

mercoledì 16 luglio 2008

Le tante bugie sui risultati della legge sull’aborto

Smascherate le valutazioni della regione Emilia Romagna



di Antonio Gaspari
articolo tratto da www.zenit.org

ROMA, venerdì, 11 luglio 2008 (ZENIT.org).- In una lettera inviata all’Assessore regionale alla Sanità, Giovanni Bissoni, e a tutti i consiglieri regionali, l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII ed in particolare il Servizio Maternità Difficile hanno contestato le valutazioni positive della regione Emilia Romagna in relazione all’applicazione della legge 194 in materia di aborti.

Circa la “Relazione sull’interruzione volontaria di gravidanza in Emilia-Romagna nel 2007”, resa nota di recente, l’associazione fondata da don Oreste Benzi ha commentato che “è un orrore che nel corso del 2007 siano stati soppressi con l’aborto in Emilia Romagna ben 11.274 bambini/e”.

Secondo l’associazione guidata attualmente da Giovanni Paolo Ramonda, è una “magra consolazione il fatto che gli aborti in Emilia-Romagna siano calati dal 2006 al 2007, e quindi sono morti 184 bambini in meno”.

“Purtroppo – si constata – questo dato positivo non basta a dire che c’è una tendenza alla riduzione degli aborti nella nostra regione; anzi, oggi è vero il contrario”.

Secondo la Comunità Giovanni XXIII, “se si analizza il trend degli ultimi anni si vede che la tendenza complessiva è di leggera crescita: gli aborti in regione hanno avuto il loro minimo nel 1995 (10.598), sono stati meno di 11.000 per tutta la seconda metà degli anni ’90, mentre dal 2000 sono costantemente sopra questa soglia. Mediamente dunque in questi 12 anni c’è stata una crescita dello 0,5% ogni anno”.

“Per di più – precisa l’associazione – a partire dal 2000 anche nella nostra regione è in vendita la ‘pillola del giorno dopo’, e anch’essa senz’altro provoca degli aborti, anche se in numero non facilmente quantificabile. Il numero di confezioni vendute di questo prodotto però è molto aumentato in questi anni, e ragionevolmente oggi vi sono almeno alcune centinaia di aborti (ma più probabilmente migliaia!) che sono avvenuti in questo modo”.

Inoltre, nella lettera inviata all’Assessore ed ai consiglieri regionali si osserva che il dato più significativo rimane l’elevato numero di aborti, cioè 11.274 aborti, il ché equivale a dire che ogni giorno in Emilia Romagna scompare con questa pratica un numero di bambini (30) superiore a quello di una classe scolastica.

I promotori del Servizio Maternità Difficile fanno rilevare che “non c’è nessun'altra causa che faccia morire un così elevato numero di piccoli sul nostro territorio. L’aborto è la terza causa di morte in regione, dopo le malattie del sistema cardicircolatorio e i tumori”.

L’associazione rileva che nonostante l’alto numero di consultori, la capillare informazione contraccettiva, le diverse tutele previste per le donne incinte, in Emilia-Romagna “si abortisce tanto, molto più che in altre regioni”.

Il rapporto di abortività, misurato tra il numero di aborti ed il numero di bambini nati, è di 277,4, e risulta 2,4 volte superiore rispetto alla provincia autonoma di Bolzano, e quasi il doppio rispetto al vicino Veneto.

C’è da considerare poi che nella relazione annuale i tecnici della regione calcolano il rapporto di abortività facendo riferimento al numero di aborti effettuati nel territorio regionale da donne residenti.

“Con questo metodo – precisano i rappresentanti della Comunità Giovanni XXIII – il rapporto risulta più basso di quello effettivo; poi questo dato, in modo scorretto, viene messo a confronto con il rapporto di abortività medio nazionale: in questo modo il rapporto di abortività regionale appare più basso del reale e circa pari al dato medio nazionale”.

Gli esperti del Servizio Maternità Difficile hanno fanno notare che anche il tasso di abortività (numero di aborti / numero di donne in età fertile), pari a 11,9, è “molto più alto in Emilia-Romagna che altrove, addirittura è il più alto a livello nazionale, del 30% superiore al dato medio nazionale”.

Un altro dato preoccupante è quello degli aborti ripetuti, cioè il 29,3%, una percentuale in aumento rispetto agli anni passati. Anche in questo caso l’Emilia Romagna è ai primi posti in Italia.

Preoccupate anche il dato delle donne straniere che abortiscono, che è passato dalle 4.426 donne del 2006 alle 4.585 del 2007.

Nella gran parte del territorio regionale i pochi aiuti rivolti alle maternità difficili sono rivolti esclusivamente alle donne residenti nel comune a cui si rivolgono. Nulla invece per coloro che risiedono in un luogo diverso, per non parlare di chi risiede all’estero.

L’Associazione Comunità Giovanni XXIII ha denunciato anche il paradossale trattamento economico, secondo cui l’intervento abortivo è sempre assicurato gratuitamente, mentre per visite ed esami legati alla gravidanza e persino il parto, in alcuni casi è a pagamento.

Per non parlare di chi ritrovandosi incinta perde il lavoro e talvolta anche la casa, come nel caso delle badanti.

“Come si fa allora a parlare di libera scelta?”, hanno sottolineato i rappresentanti della Giovanni XXIII, ed hanno aggiunto: “E’ evidente come per queste donne l’unica proposta delle istituzioni resta l’aborto ed è testimoniato dai 2.122 aborti di non residenti”.

Secondo l’associazione fondata da don Benzi, “ci troviamo di fronte a una vera e propria situazione di emergenza, per cui occorrono interventi immediati e incisivi, che invece oggi mancano”.

L’associazione chiede pertanto di sapere e rilevare in particolare “quante sono le risorse che i consultori hanno a disposizione in termini di tempi, soldi, procedure, per aiutare le maternità difficili; quanti sono e come sono stati impiegati i fondi pubblici erogati dagli enti locali per sostenere le donne con problemi tali da pensare all’aborto”.

“Quali sono gli operatori che la donna incontra; quali sono le competenze specifiche di questi operatori, e in particolare come sono stati formati alla relazione d’aiuto verso la donna incinta in difficoltà; nella programmazione degli appuntamenti quanto tempo è stato riservato per ogni colloquio”.

Si chiede inoltre di sapere quante sono state le donne che nel corso del 2007 (e se possibile anche degli anni precedenti) si sono rivolte al consultorio per abortire e poi hanno scelto di continuare la gravidanza, e quali sono stati gli aiuti che il consultorio ha proposto loro per ottenere tale risultato in relazione alla problematica avanzata.

In conclusione l’associazione chiede se “nei consultori e in tutti gli altri enti locali (servizi sociali, ospedali…) gli operatori che incontrano le donne incinte si schierino dichiaratamente a favore della prosecuzione della gravidanza, in conformità a quanto dice al Legge 194, se propongano in ogni colloquio alternative all’aborto, e come mai invece ci sono ancora oggi operatori, come a noi testimoniano tante donne, che suggeriscono o peggio fanno pressioni sulle donne perché abortiscano”.

venerdì 20 giugno 2008

IL RITO GREGORIANO (LA S. MESSA IN LATINO) A MAZZARINO! IL PAPA LA VUOLE INTRODURRE IN TUTTE LE PARROCCHIE

articolo tratto da Totus tuus

Traduzione di Daniele Arcara.

Ieri il Cardinale Dario Castrillon Hoyos, Presidente della Commissione Pontificale Ecclesia Dei, ha annunciato a Londra che Papa Benedetto XVI vuole introdurre il “Rito Gregoriano” – in precedenza conosciuto come Rito Tridentino – in ogni parrocchia della Chiesa d’Occidente.
Il Papa vuole introdurre il ‘Rito Gregoriano’ in tutte le parrocchie
Questo è un annuncio così importante che tanti cattolici non crederanno alle loro orecchie. Io ero uno dei quattro giornalisti presenti. Ecco degli estratti dalla conferenza stampa diffusa, nella quale il Cardinale demolisce completamente le interpretazioni liberali del Summorum Pontificum:


Elena Curti (The Tablet): Eminenza, vorrei chiederLe la sua opinione sulla risposta dei Vescovi dell’Inghilterra e del Galles al Motu Proprio del Papa.

Cardinal Dario Castrillon Hoyos: Penso che sia positiva. Ci sono alcuni problemi perché è un modo nuovo di celebrare la liturgia ed hanno bisogno di tempo per preparare preti e catechisti sui contenuti della Forma Straordinaria.

Reuters: In alcune parti del mondo sembra esserci della resistenza da parte dei vescovi locali nel lasciare ai fedeli piena libertà di celebrare la Forma Straordinaria. Che suggerimenti ha per i fedeli?

CC: Di informarsi. Tante difficolta sorgono perche’ non conoscono la realtà del Rito Gregoriano – questo è il nome giusto [corretto] della Forma Straordinaria, perché questa Messa non è mai stata vietata, mai. Oggi per tanti vescovi è difficile perché essi non hanno preti che conoscono il latino. Tanti seminari insegnano poche ore di latino – non abbastanza da dare la preparazione necessaria per celebrare bene la Forma Straordinaria. Altri pensano che il Santo Padre stia andando contro il Concilio Vaticano Secondo. Questa è ignoranza assoluta. I Padri Conciliari, non celebrarono mai un’altra Messa che non fosse quella Gregoriana. L’altra [il Novus Ordo] venne dopo il Concilio… Il Santo Padre, che è un teologo e che fece parte della preparazione del Concilio, sta agendo esattamente in linea con il Concilio, offrendo con libertà i modi diversi di celebrare. Questa celebrazione, quella Gregoriana, è stata la celebrazione della Chiesa per più di mille anni... Altri dicono che uno non può celebrare con la schiena rivolta alle persone. Questo è ridicolo. Il Figlio di Dio si è sacrificato al Padre, con la faccia verso il Padre. Ciò non è contro le persone. E’ per le persone...

Damian Thompson (Telegraph): Eminenza, il Santo Padre vorrebbe che le parrocchie ordinarie in Inghilterra che non hanno conoscenza del Rito Gregoriano vengano introdotte ad esso?

CC: Sì, certo. Non possiamo celebrarlo senza conoscere il linguaggio, i segni, ed i modi del Rito, ed alcune istituzioni della Chiesa stanno aiutando in questo senso. [Quindi, introdurre per insegnare ai fedeli. Questo mi ricorda quanto chiese il Concilio, e cioé, che i pastori insegnano al loro gregge a cantare e parlare sia in latino che nella loro madrelingua. Entrambe. Quindi anche adesso si usano entrambi!]

DT: Quindi il Papa vorrebbe vedere tante parrocchie ordinarie far spazio per il Rito Gregoriano?

CC: Tutte le parrocchie. Non tante – tutte le parrocchie [Tutte. Tutte. Tutte. Ripetete con me.] perché questo è un regalo di Dio. Egli offre queste ricchezze, ed è molto importante per le nuove generazioni conoscere il passato della Chiesa. Questo tipo di celebrazione è così nobile, così bella – il modo di esprimere la nostra fede è quella dei teologi più profondi. La celebrazione, la musica, l’architettura, la pittura, crea un insieme che è un tesoro. Il Santo Padre vuole offrire a tutti questa possibilità, non solo a pochi gruppi che la chiedono, così che tutti vengano a conoscenza di questo modo di celebrare l’Eucaristia nella Chiesa Cattolica.

Anna Arco (The Catholic Herald): Riguardo a ciò, vorreste vedere tutti i seminari in Inghilterra e Galles insegnassero ai seminaristi come celebrare nella Forma Straordinaria?

CC: Mi piacerebbe, e sarà necessario. Stiamo scrivendo ai seminari, ed abbiamo presente che dobbiamo fornire una preparazione approfondita non solo per il Rito, ma anche per [insegnare] la teologia, la filosofia, la lingua Latina...

DT: Quali sarebbero i passi pratici per le parrocchie ordinarie [in preparazione per il Rito Gregoriano]?

CC: Il parroco dovrebbe scegliere un ora, di Domenica, per celebrare la Messa, e preparare la comunità con la catechesi per capirla, per apprezzare il valore del silenzio, il valore del modo sacro di stare davanti a Dio, la teologia profonda, per scoprire come e perché il sacerdote rappresenta la persona di Cristo e di pregare con il prete. [Questo sottolinea anche il motivo per cui dico che SP è un gran dono per i preti. Nel cambiare il punto di vista che il prete ha della Messa e di se stesso come prete che dice la Messa, la parrocchia cambierà]

EC: Eminenza, penso che tanti cattolici siano piuttosto confusi da questa continua enfasi sul Rito Tridentino, principalmente perché ci hanno insegnato che il nuovo Rito ha rappresentato un vero progresso, e molti di noi che siamo cresciuti con esso lo vediamo come vero progresso, perché ci sono Ministri dell’Eucaristia, donne sul santuario, perché siamo tutti sacerdoti, profeti e re. A molti di noi questa nuova enfasi sembra negare tutto ciò. [buzzzz]

CC: Cos’e` il progresso?"Progredire" vuol dire [offrire] il meglio a Dio... Sono sorpreso, perche’ tanti giovani sono entusiasti della celebrazione del Rito Gregoriano...

EC: Nel Motu Proprio, l’enfasi del Papa é su un Rito e due forme, ed egli descrive il Rito Tridentino come “straordinario”. Straordinario quindi vuol dire un’eccezione, non qualcosa che celebriamo tutte le domeniche.

CC: Non “un’eccezione”. Straordinario vuol dire “non ordinario”, non “un’eccezione”. [Clap. Questo è corretto.]

EC: Dovrebbe quindi superare il nuovo Rito? Dovremmo tornare indietro? [Notate il cliche’… “torniamo indietro”. Per questa gente questo è uno spettacolo????? A somma zero ?????]

CC: Non è tornare indietro: è prendere un tesoro che è presente, ma non era offerto… Ma ci vuole tempo. L’applicazione delle riforme del Concilio Vaticano Secondo richiesero anni. Ci vuole tempo per comprendere la profondità del vecchio Rito. Il Santo Padre non sta tornando al passato; sta prendendo un tesoro dal passato per offrirlo fiano a fianco con la celebrazione ricca del nuovo Rito. La seconda preghiera Eucaristica del nuovo Rito è una delle più antiche [nell’intera liturgia della Chiesa]. Non è il caso di uno scontro ma di un dialogo fraterno.

DT: Ci sarà una chiarificazione del Motu Proprio?

CC: Non una chiarificazione del Motu Proprio stesso, ma di cose trattate nel Motu Proprio, come il calendario, l’ordinazione al sottodiaconato, il modo di usare i paramenti, il digiuno Eucaristico. [QUANDO?]

DT: Cosa ci dice del “gruppo stabile”?

CC: E` una questione di buon senso... Intorno ad ogni Vescovo ci sono forse tre o quattro persone. Questo è un gruppo stabile. Non è possibile dare la Messa a due persone, ma due qui, due lì, due da un’altra parte – loro possono averla. Sono un gruppo stabile.

DT: Da parrocchie diverse?

CC: Non c’è problema! Questo è il nostro mondo. I manager delle imprese non vivono tutti insieme, ma sono un gruppo stabile

giovedì 19 giugno 2008

'Ecclesia Dei' scrive ai Seminari: “Insegnare ai futuri sacerdoti a celebrare con il rito tridentino”


www.papanews.it

CITTA’ DEL VATICANO - La commissione vaticana Ecclesia Dei ha in preparazione una lettera da diffondere nei seminari di tutto il mondo per chiedere che i candidati al sacerdozio siano istruiti a celebrare anche in latino e secondo il rito tridentino. Lo riferisce il vaticanista Marco Tosatti nel suo Blog on-line, in base a dichiarazioni che il presidente della commissione, cardinale Dario Castrillon Hoyos, ha fatto durante una conferenza stampa tenutasi nei giorni scorsi nel Regno Unito, quando il porporato e' stato ospite della Societa' della messa latina di Inghilterra e Galles. L'iniziativa annunciata da Castrillon segue il ''motu proprio'' papale dello scorso anno, che ha liberalizzato la messa in latino secondo il rito tridentino; la Chiesa si trova impreparata per la celebrazione di queste messe e ha cosi' deciso di reintrodurre una adeguata formazione nei seminari.

lunedì 16 giugno 2008

"Non molte parrocchie - tutte le parrocchie": l'eminentissimo Castrillon Hoyos ci sorprende ancora.

da:www.rinascimentosacro.com

In una conferenza stampa tenutasi a Londra durante il suo ultimo viaggio in Inghilterra, il Cardinale Dario Castrillon Hoyos, Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha fatto dichiarazioni forti a sostegno della diffusione di quello che si dovrebbe definire "rito gregoriano" ossia la forma straordinaria del rito romano. Tutte le Parrocchie e tutti i Seminari dovranno fare i conti con questo patrimonio perchè è veramente universale. Cattolico

La Messa latina deve ritornare in Inghilterra e in Galles.



di Damian Thompson

La santa Messa latina tradizionale, che di fatto è stata bandita da Roma per circa 40 anni, deve essere reintrodotta in ogni parrocchia cattolica in Inghilterra e nel Galles. In più, tutti i seminari inglesi dovranno insegnare ai seminaristi la celebrazione della Messa antica in modo che siano in grado, una volta divenuti presbiteri, di potere celebrare la santa Messa tridentina in tutte le parrocchie dove andranno a compiere il loro servizio pastorale.

L'annuncio fatto ieri dal Cardinale in carica alla Liturgia Latina, Cardinal Dario Catrillon Hoyos, parlando per conto di Benedetto XVI, agiterà i cattolici progressisti, compresi molti vescovi di Inghilterra e Galles.

Il Papa turbò i progressisti l'anno scorso quando pubblicò un decreto che rimosse il loro potere di impedire la celebrazione della Messa tradizionale. La mossa di ieri dimostra che il Vaticano intende andare molto oltre nel promuovere l'antica liturgia.

Interrogato se la Messa latina dovrebbe essere celebrata in molte parrocchie ordinarie nel futuro, il Cardinal Castrillon ha detto: "Non molte parrocchie - tutte le parrocchie. Il Santo Padre sta offrendo questo non solo per i pochi gruppi che lo richiedono, ma per tutti, in modo che ognuno venga a conoscenza di questo modo di celebrare l'Eucaristia".

Il Cardinale, che è alla testa della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha fatto i suoi commenti mentre si stava preparando a celebrare una Messa latina tradizionale nella Cattedrale di Westminster, la prima volta che un cardinale lo fa da quarant'anni.

Nel rito tradizionale, il prete si volge nella medesima direzione della gente e legge il Canone della Messa in latino, sottovoce. Per contro, nel nuovo rito il prete guarda le persone in faccia e prega ad alta voce in vernacolo.


Il Cardinal Castrillon ha detto che il riverente silenzio del rito tradizionale era uno di quei "tesori" che i Cattolici dovrebbero riscoprire, e giovani credenti potrebbero incontrare per la prima volta.

Papa Benedetto reintroduce l'antico rito - che sarà conosciuto come il "Rito Gregoriano"- perfino dove la comunità non l'ha chiesta. "La gente non sa di essa, e perciò non la chiede" ha spiegato il Cardinale.

La Messa riformata, adottata nel 1970 dopo il Concilio Vaticano Secondo, ha sviluppato "molti, molti, molti abusi" ha detto il Cardinale. Ed ha aggiunto: "L'esperienza degli ultimi 40 anni non è stata sempre così buona. Molte persone hanno perso il loro senso di adorazione per Dio, e quegli abusi significano che molti bambini non sanno come stare in presenza di Dio."

Comunque, il nuovo rito non scomparirà; il Papa si augura di vedere le due forme della Messa esistere fianco a fianco.

Cambiamenti così travolgenti sono inevitabilmente destinati a causare intense controversie. Alla conferenza stampa, un giornalista del progressista Tablet Magazine, che è vicino ai vescovi inglesi, ha detto al Cardinale che i nuovi cambiamenti liturgici hanno comportato un "andare indietro".

In seguito al decreto papale dell'anno scorso, i vescovi progressisti in Inghilterra a America hanno provato a limitare la ripresa della vecchia Messa sostenendo che la normativa che essa dovrebbe essere reintrodotta quando un "gruppo stabile" di fedeli la richiede. Ma il Cardinal Castillon ha detto che un gruppo stabile consiste anche di tre persone che non bisogna siano neppure della stessa parrocchia.

I cambiamenti avranno bisogno di qualche anno per essere applicati, ha aggiunto, così come il Concilio Vaticano Secondo ha avuto bisogno di un sacco di tempo per essere assorbito. Egli ha insistito che la reintroduzione diffusa della Messa antica non contraddice gli insegnamenti del Concilio.


Fonte Telegraph 14 Giugno 2008.