venerdì 27 febbraio 2009

"Il motu proprio esprime l'unica interpretazione corretta del Concilio."


INTERVISTA DI MONS. GUIDO MARINI
AL PERIODICO MENSILE RADICI CRISTIANE
A cura di Maddalena della Somaglia
L'intervista è apparsa in anteprima sul sito del Vaticano

Il Santo Padre sembra avere nella liturgia uno dei temi di fondo del suo pontificato. Lei, che lo segue così da vicino, ci può confermare questa impressione?
Direi di sì. D’altra parte è degno di nota che il primo volume dell’ “opera omnia” del Santo Padre, di ormai prossima pubblicazione anche in Italia, sia proprio quello dedicato agli scritti che hanno come oggetto la liturgia. Nella prefazione al volume, lo stesso Joseph Ratzinger sottolinea questo fatto, rilevando che la precedenza data agli scritti liturgici non è casuale, ma desiderata: sulla falsariga del Concilio Vaticano II, che promulgò come primo documento la Costituzione dedicata alla Sacra Liturgia, seguita dall’altra grande Costituzione dedicata alla Chiesa. E’ nella liturgia, infatti, che si manifesta il mistero della Chiesa. Si comprende, allora, il motivo per cui la liturgia è uno dei temi di fondo del pontificato di Benedetto XVI: è dalla liturgia che prende avvio il rinnovamento e la riforma della Chiesa.

Esiste un rapporto tra la liturgia e l’arte e l’architettura sacra? Il richiamo del Papa a una continuità della Chiesa in campo liturgico non dovrebbe essere esteso anche all’arte e all’architettura sacra?
Esiste certamente un rapporto vitale tra la liturgia, l’arte e l’architettura sacra. Anche perché l’arte e l’architettura sacra, proprio in quanto tali, devono risultare idonee alla liturgia e ai suoi grandi contenuti, che trovano espressione nella celebrazione. L’arte sacra, nelle sue molteplici manifestazioni, vive in relazione con l’infinita bellezza di Dio e deve orientare a Dio alla sua lode e alla sua gloria. Tra liturgia, arte e architettura non vi può essere, dunque, contraddizione o dialettica. Di conseguenza, se è necessario che vi sia una continuità teologico-storica nella liturgia, questa stessa continuità deve trovare espressione visibile e coerente anche nell’arte e nell’architettura sacra.

Papa Benedetto XVI ha recentemente affermato in un suo messaggio che “la società parla con l’abito che indossa”. Pensa si potrebbe applicare questo anche alla liturgia?
In effetti, tutti parliamo anche attraverso l’abito che indossiamo. L’abito è un linguaggio, così come lo è ogni forma espressiva sensibile. Anche la liturgia parla con l’abito che indossa, ovvero con tutte le sue forme espressive, che sono molteplici e ricchissime, antiche e sempre nuove. In questo senso, “l’abito liturgico”, per rimanere al termine da Lei usato, deve sempre essere vero, vale a dire in piena sintonia con la verità del mistero celebrato. Il segno esterno non può che essere in relazione coerente con il mistero della salvezza in atto nel rito. E, non va mai dimenticato, l’abito proprio della liturgia è un abito di santità: vi trova espressione, infatti, la santità di Dio. A quella santità siamo chiamati a rivolgerci, di quella santità siamo chiamati a rivestirci, realizzando così la pienezza della partecipazione.

In un’intervista all’Osservatore Romano, Lei ha evidenziato i principali cambiamenti avvenuti da quando ha assunto la carica di Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie. Ce li potrebbe ricordare e spiegarcene il significato?
Affermando subito che i cambiamenti a cui lei fa riferimento sono da leggere nel segno di uno sviluppo nella continuità con il passato anche più recente, ne ricordo uno in particolare: la collocazione della croce al centro dell’altare. Tale collocazione ha la capacità di tradurre, anche nel segno esterno, il corretto orientamento della celebrazione al momento della Liturgia Eucaristica, quando celebrante e assemblea non si guardano reciprocamente ma insieme guardano verso il Signore. D’altra parte il legame altare - croce permette di mettere meglio in risalto, insieme all’aspetto conviviale, la dimensione sacrificale della Messa, la cui rilevanza è sempre fondamentale, direi sorgiva, e, dunque, bisognosa di trovare sempre un’espressione ben visibile nel rito.

Abbiamo notato che il Santo Padre, da qualche tempo, dà sempre la Santa Comunione in bocca e in ginocchio. Vuole questo essere un esempio per tutta la Chiesa e un incoraggiamento per i fedeli a ricevere Nostro Signore con maggiore devozione?
Come si sa la distribuzione della Santa Comunione sulla mano rimane tutt’ora, dal punto di vista giuridico, un indulto alla legge universale, concesso dalla Santa Sede a quelle Conferenze Episcopali che ne abbiano fatto richiesta. E ogni fedele, anche in presenza dell’eventuale indulto, ha diritto di scegliere il modo secondo cui accostarsi alla Comunione. Benedetto XVI, cominciando a distribuire la Comunione in bocca e in ginocchio, in occasione della solennità del “Corpus Domini” dello scorso anno, in piena consonanza con quanto previsto dalla normativa liturgica attuale, ha inteso forse sottolineare una preferenza per questa modalità. D’altra parte si può anche intuire il motivo di tale preferenza: si mette meglio in luce la verità della presenza reale nell’Eucaristia, si aiuta la devozione dei fedeli, si introduce con più facilità al senso del mistero.

Il Motu Proprio “Summorum Pontificum” si presenta come un atto tra i più importanti del pontificato di Benedetto XVI. Qual è il suo parere?
Non so dire se sia uno dei più importanti, ma certamente è un atto importante. E lo è non solo perché si tratta di un passo molto significativo nella direzione di una riconciliazione all’interno della Chiesa, non solo perché esprime il desiderio che si arrivi a un reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano, quello ordinario e quello straordinario, ma anche perché è l’indicazione precisa, sul piano normativo e liturgico, di quella continuità teologica che il Santo Padre aveva presentato come l’unica corretta ermeneutica per la lettura e la comprensione della vita della Chiesa e, in specie, del Concilio Vaticano II.

Qual è a suo avviso l’importanza del silenzio nella liturgia e nella vita della Chiesa?
E’ un’importanza fondamentale. Il silenzio è necessario alla vita dell’uomo, perché l’uomo vive di parole e di silenzi. Così il silenzio è tanto più necessario alla vita del credente che vi ritrova un momento insostituibile della propria esperienza del mistero di Dio. Non si sottrae a questa necessità la vita della Chiesa e, nella Chiesa, la liturgia. Qui il silenzio dice ascolto e attenzione al Signore, alla sua presenza e alla Sua parola; e, insieme, dice l’atteggiamento di adorazione. L’adorazione, dimensione necessaria dell’atto liturgico, esprime l’incapacità umana di pronunciare parole, rimanendo “senza parole” davanti alla grandezza del mistero di Dio e alla bellezza del suo amore.

La celebrazione liturgica è fatta di parole, di canto, di musica, di gesti…E’ fatta anche di silenzio e di silenzi. Se questi venissero a mancare o non fossero sufficientemente sottolineati, la liturgia non sarebbe più compiutamente se stessa perché verrebbe a essere privata di una dimensione insostituibile della sua natura.

Oggigiorno si sentono, durante le celebrazioni liturgiche, le musiche le più diverse. Quale musica, secondo lei, è più adatta ad accompagnare la liturgia?
Come ci ricorda il Santo Padre Benedetto XVI, e con lui tutta la tradizione passata e recente della Chiesa, vi è un canto proprio della Liturgia e questo è il canto gregoriano che, come tale, costituisce un criterio permanente per la musica liturgica. Come anche, un criterio permanente, lo costituisce la grande polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico, che trova la più alta espressione in Palestrina.

Accanto a queste forme insostituibili del canto liturgico troviamo le molteplici manifestazioni del canto popolare, importantissime e necessarie: purché si attengano a quel criterio permanente per il quale il canto e la musica hanno diritto di cittadinanza nella liturgia nella misura in cui scaturiscono dalla preghiera e conducono alla preghiera, consentendo così un’autentica partecipazione al mistero celebrato.

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